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Il breve saggio “The Philosophy of Furniture” apparve la prima volta sul «Burton’s Gentleman’s Magazine» nel maggio 1840. L’articolo fu ripubblicato con il titolo “House Furniture” il 3 maggio 1845 sul «Broadway Journal» e il 17 maggio su «Weekly Mirror» di New York.
A partire dall’edizione del 1845 fu eliminato il primo brano. L’articolo tornò con il titolo “The Philosophy of Furniture” su «The Spirit of the Times» del 16 maggio 1840 e infine, a partire dal 1866, fu pubblicato come “Philosophy of Furniture”.
La prima traduzione francese, a opera di Charles Baudelaire, con il titolo “Philosophie de l’Ameublement”, apparve nell’ottobre 1852 su «Le Magazine Des Familles».
La presente traduzione, basata sulla versione “House Furniture” del 1845, uscì nel volume Edgar Allan Pöe curato da Federico Garrone ed Ernesto Ragazzoni, pubblicata da Roux Frassati e Company Editori nel 1896.
Il brano iniziale eliminato
La filosofia”, secondo Hegel, “è del tutto inutile e infruttuosa, e, proprio per tale ragione, è la più sublime di tutte le attività, la più meritevole della nostra attenzione e la più degna del nostro zelo” – un’affermazione quasi alla Coleridge, con un rivolo di significato profondo in un prato di parole. Sarebbe tempo perso districare il paradosso – tanto più che nessuno negherà che la Filosofia ha i suoi meriti e è applicabile a un’infinità di scopi. C’è una ragione, si dice, per friggere le uova, e c’è filosofia anche nell’arredamento – una filosofia che tuttavia sembra essere compresa più imperfettamente dagli americani che da qualsiasi nazione civile sulla faccia della terra.
Prefazione di Federico Garrone
Come tutti gli esseri troppo sensibili, i quali, perseguitati dalla sorte, senza gioie e senza soddisfazioni nella vita, malcontenti della realtà, si sono fabbricati un mondo immaginario, e si compiacciono stranamente a torturarsi coll’avvicinare, collo studiare la felicità che loro fu negata, così anche il nostro autore, il povero sognatore della Bellezza, prova una gioia ineffabile a immergersi per un momento in quel lusso aristocratico, di cui fu circondata l’avventurosa sua prima giovinezza, e che poi non ebbe più.
Egli è tristamente sollevato quando può descrivere minutamente con analisi gentile alcuna cosa, in cui vorrebbe avere parte e vita.
In questa Filosofia dell’arredamento (ideale di abitazione) così fine, così ricca di osservazioni, cosi delicata di stile, si sentono le aspirazioni tutte di Pöe verso il bello, il suo gusto geniale di artista originalissimo, e quella sua eterna preoccupazione dell’apparato scenico, che abbiamo già notato altrove e che fu forse la sola eredità lasciatagli da quegli sventurati Cabotins1 che furono i suoi genitori.
La filosofia dell’arredamento
Nella decorazione interiore delle proprie abitazioni gli’Inglesi sono superiori a tutti.
GI’Italiani, all’infuori dei marmi o dei colori, sentono assai debolmente l’arredamento.
In Francia meliora probant, deteriora sequentur2; i Francesi sono una razza troppo coureuse3 per coltivare questo talento domestico, del quale però hanno la delicatissima intelligenza, o quanto meno il senso elementare e giusto.
I Chinesi e la maggior parte dei popoli orientali hanno in ciò una calda immaginazione, ma poco appropriata.
Gli Scozzesi sono poveri decoratori.
Gli Olandesi hanno forse l’idea che non si devono far tende con dei ritagli.
In Ispagna invece tutto è cortina, tutto è appeso. La Spagna, in realtà, è una nazione che ama le appiccagioni.
I Russi non hanno mobiglio.
Gli Ottentotti s’accontentano della semplice natura4.
Non ci sono proprio che gli Americani – i Yankee – che faccian le cose all’opposto del buon senso.
Come ciò accada, non è difficile comprendere: noi, americani, non abbiamo aristocrazia di nascita, e, per conseguenza, avendo naturalmente e inevitabilmente fabbricato per nostro uso e consumo una aristocrazia di dollari, la mostra della ricchezza ha dovuto prendere il posto e compiere l’ufficio del lusso mobiliare dei paesi monarchici.
Per una transizione facile a capire, ed egualmente facile a prevedersi, noi fummo indotti a soffocare in una pura ostentazione tutte le nozioni di gusto che potevamo possedere.
Parliamo in modo meno astratto:
In Inghilterra, per esempio, una esposizione di mobiglio costoso sarebbe di gran lunga meno adatta, che non in America, a dare un’idea di bellezza relativamente al mobiglio stesso, e di buon gusto naturale riguardo al proprietario.
Ciò, in primo luogo, perché la ricchezza, non costituendo nobiltà, non è in Inghilterra il supremo scopo dell’ambizione; poi perché la vera nobiltà di nascita, attenendosi colà al più stretto limite del gusto legittimo, evita quella sontuosità, che solo l’invidia di un arricchito può raggiungere con successo. Il popolo imita i nobili, e ne consegue una diffusione generale del giusto sentimento.
Ma in America, il danaro contante essendo il solo blasone dell’aristocrazia, la mostra di questo denaro può considerarsi come il solo mezzo di distinzione; e il volgo, che cerca sempre i suoi modelli in alto, è insensibilmente spinto a confondere le due idee, essenzialmente distinte, della bellezza e della sontuosità.
Insomma, per noi americani, il valore, o, meglio, il costo di un oggetto di mobiglio, è diventato l’unico criterio del suo merito sotto il punto di vista decorativo, e questo criterio, una volta adottato, ha aperto la via a una serie di errori, dei quali si può facilmente risalire la fonte sino alla principale sciocchezza primordiale.
Non v’è cosa che urti più direttamente l’occhio di un artista quanto l’arredamento interno di ciò che agli Stati Uniti si dice un appartamento bene ammobigliato.
Il principale difetto è la mancanza d’armonia. Parlo dell’armonia di una camera, come parlerei dell’armonia di un quadro, imperocché entrambi, la camera e il quadro, sono, nella stessa maniera, soggetti ai principii immutabili, che governano tutte le varietà dell’arte.
E si può dire che le regole per cui noi giudichiamo le qualità principali di un quadro sono, presa’a poco, sufficienti per apprezzare l’arredamento di una camera.
Qualche volta la mancanza d’armonia si rivela nel carattere delle varie parti dell’arredamento, ma più generalmente è notevole nei colori o nel modo di adattarli al loro uso naturale.
Spesso l’occhio è offeso da un adattamento antiartistico: o sono le linee dritte troppo visibilmente predominanti, continuate senza interruzione, o spezzate ad angoli retti, oppure, se domina la linea curva, essa si ripete con una monotona uniformità, e così, per esagerata precisione, tutto l’aspetto di una bella camera si trova completamente guastato.
Le drapperie raramente sono ben disposte o ben scelte in rapporto colle altre decorazioni.
Con un mobiglio completo e razionale, un grosso volume di cortinaggi, di qualunque natura essi siano, non è conciliabile col buon gusto.
Poi v’è la questione dei tappeti. In questi giorni essa tende a migliorare, ma però fa sovente commettere gravi errori a causa della scelta delle tinte e dei disegni.
Il tappeto è l’anima dell’appartamento. È il tappeto che deve dare il tono del colore e determinare pure la forma degli oggetti destinati a posarvi su.
A un giudice qualunque è permesso di essere un uomo ordinario; ma un buon giudice in tappeti deve essere un uomo d’ingegno.
Ognun sa che un grande tappeto può portare grandi disegni, e che un piccolo tappeto deve essere coperto di disegni piccoli; ma in ciò solo non sta tutta la dottrina.
(Noi abbiamo sentito su ciò discutere col fare di allocchi spiritati molti zerbinotti, incapaci di dare ai loro propri mustacchi una piega regolare.)
Per quanto riguarda il tessuto, il tappeto di Sassonia è veramente il solo che sia ammissibile. Quello di Brusselle5 è il passato più che perfetto dello stile, e quello di Turchia è il buon gusto nella sua definitiva agonia.
Riguardo al disegno, un tappeto non deve essere tatuato e foggiato come un Indiano Riccareo6, tutto a righe rosse, giallo ocra, e penne di gallo.
Le leggi inviolabili, nel caso in questione, sono: un fondo visibile, con disegni vivi, circolari o cicloidi, ma che non abbiano significato di sorta.
Quell’orrore dei fiori o delle immagini di oggetti comuni di qualsivoglia specie, dev’essere recisamente escluso. Si tratti di tappeto, di tenda, di tappezzeria, o di stoffa, tutto ciò deve assolutamente essere ornato con disegni arabeschi.
Quei vecchi tappeti, come se ne trovano ancora nelle abitazioni borghesi, con enormi disegni a raggi, separati da righe dritte e brillanti di tutti i colori dell’arcobaleno, e nei quali è impossibile distinguere uno sfondo, non sono che una malsana invenzione di quelsfoggiola razza di adoratori appassionati dell’oro, figli di Baal, innamorati di Mammone7, i quali, per risparmiare il pensiero ed economizzare la fantasia, hanno dapprima inventato l’abominevole caleidoscopio, e poi hanno fondato delle Società per azioni allo scopo di farlo girare a vapore.
Lo sfoggio è la principale eresia della filosofia americana in materia di mobiglio; eresia che nasce da quel pervertimento del gusto di cui poc’anzi parlavamo.
Ad esempio, noi sembriamo impazzire pel gas e pel vetro.
Il gas nelle case è inammissibile; e a chiunque ha cervello e occhi ripugnerà di usarlo.
Una luce dolce, quella che gli artisti chiamano a giorno freddo, producendo naturalmente delle ombre calde, farà meraviglie anche in una camera imperfettamente mobigliata.
Non vi è invenzione più simpatica della lampada astrale. Voglio parlare della bella lampada di Argand8, col suo paraluce primitivo di vetro liscio, colla luce chiara di luna eguale e moderata.
Il riverbero in vetro faccettato è una trista invenzione del demonio. La fretta colla quale venne adottato, prima perché è risplendente, poi perché costa di più, è un ottimo commento in appoggio alla mia proposizione.
Chi adopera uno di tali abatjour, deliberatamente, non ha buon gusto o è un servitore cieco dei capricci della moda.
La luce, che passa per tali vanitose abbominazioni, è ineguale, spezzata, dolorosa. Essa basta per guastare tutti i buoni effetti in un ammobigliamento soggetto alla sua detestabile influenza.
Un brutto occhio sciupa più della metà del fascino della bellezza femminina.
In fatto di vetro, generalmente si parte da un falso principio, che cioè la sua qualità e il suo carattere principale debba essere il luccicchio.
Quale folla di cose sgradevoli questa sola parola basta a esprimere!
Le luci tremolanti, inquiete, possono essere qualche volta gradite (esse lo sono sempre ai fanciulli e agli idioti); ma nella decorazione di una camera debbono essere scrupolosamente evitate. Dirò di più; la luce fissa, se è troppo viva, neppure essa deve essere accettata.
Quegli enormi e insensati candelabri di vetro tagliati a faccette, illuminati a gas, senza riverbero, che sono sospesi nei nostri saloni più alla moda, possono essere citati come la quintessenza del cattivo gusto e il superlativo della follia.
La mania dello sfarzo, questa idea, come ho detto, essendosi confusa con quella della magnificenza, ha spinto all’uso generale degli specchi. Si coprono le pareti degli appartamenti con grandi lastre di fabbrica inglese e si crede di avere con ciò fatto qualche cosa di molto bello.
Invece la più leggera riflessione basterà a convincere chiunque abbia occhi, dello sgradevole effetto prodotto da numerosi specchi, specie poi se grandissimi.
Prescindendo pure dalla sua potenza riflessiva, lo specchio presenta una superficie liscia, incolore, monotona, cose queste, sempre ed evidentemente, spiacevoli.
Considerato come riflessione, lo specchio contribuisce grandemente a produrre una mostruosa e antipatica uniformità, e il male è aggravato non solo in proporzione diretta del mezzo, ma in ragione costantemente crescente.
Diffatti una camera che abbia quattro o cinque specchi, distribuiti qua e là, è, dal punto di vista artistico, una camera senza forma. Se a questo difetto si aggiunge la ripercussione delle cose riflesse, si otterrà un perfetto caos di effetti discordanti e spiacevoli.
Il più ingenuo villano, entrando in una camera così fatta, sentirà immediatamente che in essa vi è qualche cosa di assurdo, per quanto gli riesca impossibile assolutamente di trovare la causa di questa sua impressione.
Supponiamo lo stesso individuo condotto in una camera arredata con gusto. Egli lascierà sfuggirsi un’esclamazione di sorpresa e di piacere.
Una disgrazia, che proviene dalle nostre istituzioni repubblicane, è quella che un uomo che possiede una gran borsa, non ha generalmente che una piccola anima da mettervi dentro. La corruzione del gusto fa il paio coll’industria dei dollari. Più si arricchisce e più le nostre idee si guastano. Perciò non è certo nella nostra aristocrazia che noi cercheremo l’alta spiritualità del salotto inglese.
In questo momento ho davanti agli occhi della mente una piccola camera, senza pretensione, arredata in modo irreprensibile.
Il proprietario è assopito su di un sofà. La temperatura è mite, la mezzanotte è vicina.
Farò uno schizzo mentre egli sonnecchia:
La forma è oblunga; 30 piedi di lunghezza, 25 di larghezza9. È questa una forma che permette la maggior comodità pel collocamento del mobiglio.
Non vi è che una porta, poco larga, nel fondo e due finestre dal lato opposto; queste ultime sono larghe e scendono sino al pavimento. Sono molto incassate e si aprono sopra una terrazza all’italiana.
I vetri, color porpora, sono inquadrati in legno di palissandro più massiccio dell’ordinario.
Nello stesso sfondo sono guerniti di cortine di un fitto tessuto d’argento, adattato alla forma delle finestre, e cadenti libere a piccole pieghe.
Nell’interno vi sono tende di seta cremisi, molto ampie, con una ricca frangia d’oro e argento dello stesso tessuto di cui sono fatte le tendine esteriori.
Nessuna cornice, ma tutte le pieghe della stoffa (che è finissima e leggera) sono strette da un cornicione dorato, di ricco lavoro, che fa il giro della camera alla linea di congiunzione tra il soffitto e le pareti.
La drapperia si apre e si chiude mediante un cordone di filo d’oro che l’avvolge negligentemente e che si stringe in un facile nodo. Non vi sono bracciali né meccanismo di sorta.
I colori delle tende e della frangia, cremisi e oro, si riproducono dappertutto con profusione e determinano il carattere della camera.
Il tappeto, un tessuto di Sassonia, è spesso un pollice, e il suo fondo, egualmente cremisi, è semplicemente rilevato da una striscia d’oro, analoga al cordone che stringe le tende, alquanto in rilievo, la quale, girando a zig-zag, forma una serie di curve brusche e irregolari, l’una passando ogni tanto sopra l’altra.
I muri sono rivestiti di una carta rasata di color argentino, tigrata da piccoli arabeschi del colore cremisi dominante, però alquanto diminuito di vivacità.
Qualche pittura qua e là sulla tappezzeria: per la maggior parte paesaggi di stile imaginativo, del genere della Grotta delle fate di Stanfield10, o dello Stagno lugubre di Chapmann11.
Vi sono però tre o quattro teste di donna di una bellezza eterea, ritratti sul fare di quelli di Sully12.
Ogni pittura è di tono caldo, ma serio. Esse non producono quello che si dice un effetto brillante. Da tutte emana un senso di quiete e di riposo.
Nessuna tela è di piccole dimensioni. I quadri troppo piccoli danno a una camera quell’aspetto di picchiettatura, che è il difetto di molte opere d’arte troppo ritoccate.
Le cornici sono larghe, poco profonde e riccamente scolpite, né opache, né traforate, e hanno, tutte, lo splendore dell’oro brunito.
Riposano a piatto sul muro, non sospese da corde, e non inclinano verso chi le guarda.
È vero che i quadri guadagnano spesso a essere inchinati, ma l’aspetto generale della camera ne è sciupato.
Non v’è che un solo specchio e non grande; la sua forma è pressoché circolare e è sospeso per modo che il proprietario non possa, stando seduto, vedervi entro la propria imagine.
Due larghi divani, bassissimi, in legno di palissandro, coperti di seta cremisi ricamata d’oro, sono i soli sedili, eccezion fatta di due poltroncine pure in palissandro.
V’è un pianoforte aperto. Una tavola ottagonale, fatta di un bellissimo marmo, in un sol pezzo, incrostata d’oro, è collocata vicino a uno dei divani.
Questa tavola non ha tappeto: in fatto di drapperie si credettero sufficienti le cortine.
Quattro grandi e magnifici vasi di Sèvres13, con entro una profusione di fiori olezzanti e dai colori assai vivi occupano i quattro angoli, leggermente arrotondati, della stanza.
Un alto candelabro contiene una piccola lampada antica, ove arde un olio profumato e è posto presso la testa del mio amico assopito.
Parecchie assicelle leggere e graziose, coi bordi dorati, sospese con cordicelle di seta cremisi con borchiette d’oro, sostengono due o trecento volumi magnificamente rilegati.
Non v’è altro mobile, eccettuata una lampada di Argand: un semplicissimo globo di vetro di color porpora, che pende dal soffitto (che è a volta e molto alto) per un’unica e sottile catena d’oro, e spande su tutte le cose una luce al tempo stesso tranquilla e misteriosa.
—
1 Attori teatrali.
2 La frase completa è “vedo il meglio e l’approvo, ma seguo il peggio”. È tratta dalle Metamorfosi di Ovidio (VII, 20-21).
3 Francesismo introdotto dal traduttore. Nel testo originale è “gad-abouts”, donnaioli, stesso significato di “coureuse”.
4 Nella traduzione è stato eliminato Kickapoo, una tribù di nativi americani e indigeni messicani di lingua algonchina.
5 Termine ormai desueto per Bruxelles.
6 È un’ortografia alternativa per la tribù Arikara, originari del Nord e Sud Dakota.
7 “Worshippers of Mammon”: adoratori del denaro.
8 Tipo di lampada a olio inventata dallo svizzero François-Pierre-Amédée Argand e brevettata in Inghilterra nel 1784.
9 Circa 9 metri per 7 e mezzo.
10 Probabilmente si tratta delle Saalfelder Feengrotten, in Germania.
11 The Lake of the Dismal Swamp, disegnato da J.G. Chapman e inciso da J. Smilie.
12 Thomas Sully (1783-1872), pittore britannico, ricordato soprattutto per i suoi ritratti di donne. La frase “There are, nevertheless, three or four female heads, of an ethereal beauty — portraits in the manner of Sully.” manca nella prima versione dell’articolo.
13 Si riferisce alla Manifattura Reale di Porcellane di Sèvres, che produceva vasi decorativi, in voga nella Francia del tardo Settecento.
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