Di questo breve racconto – che possiamo inserire fra la narrativa lampo di Poe – il Poe Museum di Richmond conserva un frammento di manoscritto (non quello inviato per la pubblicazione), probabilmente del 1832, che ottenne dalla famiglia Griswold. Precedentemente, infatti, il frammento era in possesso della vedova di William McCrillis Griswold, figlio di Rufus Griswold.
Il titolo originale del racconto era “Siope1 — A Fable”, che Poe menziona per la prima volta in una lettera scritta a John Pendleton Kennedy l’11 settembre 1835:
Vedo che è uscito il Gift. Hanno pubblicato il Manoscritto trovato in una bottiglia (il racconto premiato di cui vi ricorderete) sebbene non soltanto io avessi detto in prima persona al signor Carey che era già stato pubblicato, ma gli avessi scritto in questo senso anche dopo il mio ritorno a Baltimora, e mandandogli un altro racconto per sostituirlo (Epimanes2). Non posso capire perché l’hanno pubblicato, o perché non hanno pubblicato né Siope né Epimanes3.
Il racconto “Siope — A Fable” fu infine pubblicato nel novembre 1837 sul «Baltimore Book». Con questo titolo restò fino al novembre 1839, quando fu incluso nella raccolta Tales of the Grotesque and Arabesque (TGA). Poe lo cambiò in “Silence — A Fable” nel 1842, in vista della raccolta, mai pubblicata, Phantasy Pieces, come seconda edizione di TGA.
Da quel momento il racconto fu sempre ripubblicato con il nuovo titolo, anche nel «Broadway Journal» il 6 settembre 1845, sebbene sul «Southern Watchman», il 27 giugno 1866, comparve come “A Fable”, senza il titolo principale e con il sottotitolo “In the manner of the Pschological Autobiographists”, tra l’altro presente anche nell’edizione del «Baltimore Book» e in TGA.
La presente traduzione è tratta dal volume Novelle straordinarie, pubblicato dalla STEN editrice nel 1921. Un libro con lo stesso titolo appare citato nel 1869 nella «Rivista universale».
Silenzio. Una favola4
Εὕδουσιν δ’ ὀρέων κορυφαί τε καὶ φάραγγες,
Πρώονές τε καὶ χαράδραι5
Alcmane
«Ascoltami» disse il Demonio, poggiandomi la mano sulla testa. «Il paese di cui ti parlo è una ben triste regione della Libia6, sulle sponde del fiume Zaira. Là non vi è né riposo, né silenzio.
«Le acque malsane del fiume hanno un colore giallognolo; esse non corrono al mare, ma si agitano continuamente con un movimento tumultuoso e convulsivo sotto il sole infuocato. Da tutte e due le rive di questo fiume, che ha il letto melmoso, ad una distanza di molte miglia si stende un pallido deserto di ninfee gigantesche, che mandano in quella solitudine reciproci sospiri, ed ergono verso il cielo i loro sottili colli di spettri, ondeggiando in eterno i loro mesti capi. Si alza da esse un confuso mormorio come quello di torrente che scorra sotto terra; e continuano a mandarsi a vicenda profondi sospiri.
«Il loro impero ha i suoi confini stabiliti da una grandissima, nera e spaventosa foresta. Spessi piccoli alberi agitano di continuo le loro fronde, però per il cielo non spira vento. Alberi primitivi, di smisurata grandezza, scuotono le cime continuamente, con grande fracasso, ora da un lato ora dall’altro e da essi stilla a goccia a goccia una rugiada eterna. Ed a’ loro ampi piedi si contorcono in sonno agitato piante strane e velenose. E sulle loro teste con scroscio rombante, sempre verso Occidente, si precipitano nubi grigiastre, fino a che quegli annosi vegetali si rovesciano come un’ampia cataratta, dietro i limiti sfolgoranti dell’orizzonte. Per il cielo non si agita soffio di vento, e sulle sponde del fiume Zaira non vi è né calma né silenzio.
«Era notte, e cadeva la pioggia, e mentre cadendo era acqua, caduta sembrava sangue. Ed io ero rinchiuso in quel padule, tra le gigantesche ninfee, e l’acqua mi cadeva sulla testa… le ninfee, nella gravità solenne della loro desolazione, mandavano reciproci sospiri.
«Ad un tratto apparve la luna attraverso il velo leggero di quella funebre nebbia, mostrando il suo disco splendente d’un colore cremisi vivo. I miei sguardi si posarono su di una roccia grigiastra, che si ergeva sulla riva del fiume, sulla quale la luna mandava la sua strana luce. La roccia era grigiastra, paurosa, altissima… essa era grigiastra! Su di essa si vedevano impressi grossi caratteri, ed io avanzavo a stento in quel padule di ninfee, ansioso di giungere alla riva per poter leggere le lettere scolpite sulla roccia. Invano! non mi fu possibile decifrarle. Stavo per tornare indietro nel padule, quando la luna mandò un raggio più vivo: ed io mi rivolsi e guardai ancora il masso e le lettere, e lessi che vi era scritto: Desolazione!
«Spinsi lo sguardo più in alto, e alla cima della roccia scorsi un uomo immobile; mi nascosi subito tra le ninfee, spiando i suoi movimenti. Era grande e maestoso di forme, ed aveva l’intero corpo avvolto nell’antica toga romana. I contorni della sua persona erano indistinti, ma le sue linee apparivano veramente divine; poiché, nonostante le ombre della notte, le nebbie, la luna e la rugiada, il suo volto brillava di luce. Aveva la fronte ampia e grave di pensieri, ed il suo sguardo sembrava torbido dall’affanno. Nelle larghe rughe delle sue gote io scorsi le leggende dei dolori, delle fatiche, del disgusto per l’umanità ed un infinito desiderio di solitudine.
«Egli si sedette sul masso, appoggiò la testa sulla mano, e girò lo sguardo su quella desolazione. Osservava i piccoli alberi irrequieti, e quei giganteschi alberi primitivi; volse l’occhio in alto, fissando il cielo sparso di nuvole leggiere, e la luna tinta di sangue.
«Io me ne stavo accoccolato in mezzo alle ninfee, guardando quello strano uomo.
«Egli tremava in quella solitudine; ma intanto che la notte s’inoltrava, ei se ne rimaneva immobile sulla roccia.
«L’uomo distolse l’occhio dal cielo e lo volse al lugubre fiume Zaira, su quelle acque gialle e funebri, sulle pallide legioni di ninfee, ed ascoltava attento i sospiri e il tetro mormorio che da queste si levava. Ed io me ne stava nel mio nascondiglio osservando tutte le azioni dell’uomo. Ed egli tremava in quella solitudine. Intanto la notte s’inoltrava, ed ei rimaneva seduto sulla roccia.
«Allora mi avanzai nelle più remote parti del padule, calpestando i molli capi delle ninfee, chiamando gl’ippopotami che abitano i profondi gorghi dei padule. Gl’ippopotami udirono la mia voce e vennero coi serpenti tortuosi7 fino ai piedi della roccia, e sotto la luna emisero alti e terribili ruggiti. Io ero sempre accoccolato nel mio nascondiglio, fissando quell’uomo; ed egli tremava nella solitudine… Ciò nonostante, la notte avanzava ed ei rimaneva immobile sulla roccia.
«Allora io imprecai agli elementi, con la maledizione del tumulto; e su nel cielo, dove poco prima non spirava un soffio d’aria, si addensò una tempesta spaventevole. E il cielo si era fatto livido per la violenza del turbine, la pioggia si rovesciava sul capo dell’uomo, le acque del fiume straripavano e tormentate spruzzavano in schiuma, le ninfee mandavano gridi dai loro letti, la foresta si curvava ai colpi del vento, il tuono rumoreggiava, le saette guizzavano e la roccia era scossa fin dalle fondamenta. Io ero sempre accoccolato tra le ninfee, spiando i movimenti dell’uomo. E l’uomo tremava nella solitudine… La notte s’inoltrava, ed egli rimaneva immobile sulla roccia.
«Allora fui preso da una forte irritazione e maledissi, con la maledizione del silenzio, il fiume, le ninfee e i loro sospiri, il vento, la foresta, il cielo e il tuono. Ed essi, tutti colpiti dalla mia maledizione, ammutolirono.
«La luna si fermò nel cielo, e le nubi stettero gravemente; le acque ritornarono nel loro letto e vi rimasero; gli alberi finirono d’agitarsi, le ninfee non sospirarono più e cessò ogni arcano mormorio degli innumerevoli steli, e tacque ogni più lieve voce in quel deserto solenne ed infinito. Io fissavo le lettere della roccia che si erano ora cambiate e vi leggevo: Silenzio!
«I miei sguardi tornarono a posarsi sull’uomo, e lo vidi livido pel terrore. Levò impetuosamente il capo dalla mano, si alzò e tese l’orecchio. Ma nella immensa solennità di quel deserto senza confini non si udiva una voce, e le lettere impresse sulla roccia rappresentavano: Silenzio. L’uomo fu scosso in tutto il corpo dalla paura, e rapidamente si voltò e fuggì lontano, precipitosamente, finché scomparve e non lo vidi mai più».
Vi sono certamente bei racconti nei libri dei Magi8, nei malinconici libri dei Magi, rilegati in ferro. In essi, ripeto, si trovano splendide narrazioni del cielo, della terra, del mare potente e dei Geni9 che governarono sul mare, sulla terra, nell’alto dei cieli. Profonda scienza si scorgeva nelle parole delle Sibille10; e cose sante furono udite un tempo dalle quercie malinconiche che si agitavano intorno a Dodona11; ma, come è vero che Allah è vivente, io credo che questa favola raccontatami dal Demonio, quando, all’ombra del sepolcro, mi si sedette al fianco, sia la più splendida di tutte.
Quando il Demonio ebbe finito questa storia tornò ad adagiarsi nel sepolcro12 e si pose a ridere. Io non potei ridere col Demonio, ed egli mi maledisse, perché mi fu impossibile ridere con lui. Allora la lince13, la quale vive in eterno nei sepolcri, uscì fuori, si accovacciò ai piedi del Demonio, fissandolo intensamente negli occhi.
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1 Siope (σιωπή) in greco antico significa silenzio.
2 Titolo con cui apparve la prima volta il racconto “Quattro bestie in una” (Four Beasts in One).
3 Edgar Allan Poe, Epistolario, Longanesi, 1955, p. 113. Ho cambiato il titolo del racconto in Siope, poiché la traduzione riporta Silenzio, ma nella lettera originale è scritto appunto Siope.
4 La versione pubblicata sul «Baltimore Book» ha un’altra citazione: “Ours is a world of words: Quiet we call/Silence — which is the merest word of all. Al Aaraaf”. Sul «Broadway Journal» tornano i versi di Alcmane.
5 “Le sommità delle montagne riposano; la valle, le rocce e la caverna sono mute”. Edgar Allan Poe, Novelle straordinarie, p. 225.
6 La Libia era usata dagli antichi Greci per designare l’intero continente africano, secondo la Storia naturale di Plinio, V, 1. Zäire è l’antico nome portoghese del Congo.
7 Nell’originale è behemoth. La traduzione del 1869 di B.E. Maineri nella raccolta Storie incredibili riporta in nota: «Animali misteriosi, di cui i rabbini riferiscono cose piene di meraviglia, sostenendo essere questi riservati pel banchetto degli eletti, che avrà luogo alla fine del mondo. Serpenti tortuosi è però generica espressione, ché nel testo leggesi bemoth al plurale, che puossi interpretare, secondo il genio della lingua ebraica, la gran bestia; di cui si legge al c. 40, r. 10 di Giobbe. Secondo la poesia del Poe, i serpenti tortuosi potrebbero benissimo interpretarsi per coccodrilli». Una nota dell’edizione dei racconti di Mabbott (The Collected Works of Edgar Allan Poe — Vol. II: Tales and Sketches, 1978) riporta: «Poe ovviamente era uno di quelli che pensano che l’animale fosse l’elefante».
8 I Magi erano sacerdoti, tra i persiani, famosi per la tradizione mistica.
9 I Genii, o Jinn, erano leggendari spiriti orientali del potere.
10 Le Sibille erano profetesse tra i Greci e i Romani.
11 Antico luogo sacro dell’Epiro occidentale. Poe si riferisce a Dodona anche nella sua prefazione a Marginalia: «Anche colle pagine stampate sotto gli occhi, le mie annotazioni sembravano gli oracoli di Dodona».
12 Nell’originale è “in the shadow of the old tomb at Balbec”. Poe nomina Balbec nella poesia “Al Aaraf” (Friezes from Tadmor and Persepolis —/From Balbec, and the stilly, clear abyss/Of beautiful Gomorrah!) e anche nel racconto “Manoscritto trovato in una bottiglia” (e mi sia immerso nell’ombra delle colonne dirute di Balbek, di Tachinor e di Persepoli). Ba’albek, la “città del dio”, sembra essere stata un grande centro del culto del Sole fin dai tempi antichi. I Greci la chiamarono Eliopoli, e i Romani ne fecero una colonia.
13 Animale sacro ad Apollo, quindi simbolo di profezia.
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