Dalla concezione generale dell’arte ecco che noi siamo discesi alle leggi della composizione, da queste alle doti estrinseche dell’opera d’arte. Le linee dell’estetica di Poe sono così state tutte tracciate; una sola manca, e per ricongiungerla a quelle dalle quali si diparte ci è mestieri tornare alle prime considerazioni sulla poesia in generale. Quel sentimento della bellezza c’è il principio d’ogni poesia, può manifestarsi in più specie di forme create: s’hanno così le diverse arti, la scoltura, la pittura, la musica, la composizione dei giardini a paesaggio (landscape gardens), la poesia, ognuna delle quali è la creazione di una particolar forma di bellezza. Di queste varie forme del sentimento poetico (cioè creativo) Poe non si sofferma a considerare che quella che si manifesta per mezzo delle parole, quell’arte cui il comune linguaggio ha ristretto il nome di poesia; e dalla considerazione della inseparabilità dell’elemento musicale, nelle forme del ritmo e della rima, dall’espressione poetica, egli trae la conclusione che la poesia debba definirsi: la creazione ritmica della bellezza34. Così è scritto nel saggio sulle Ballate di Longfellow, pubblicato nel 1842, così ripetuto in quello sul principio poetico letto sette anni più tardi; e reca meraviglia che il poeta, sempre così geloso d’esprimere chiaramente e precisamente le sue idee, non si sia accorto quanto ambigua, oscura e falsa fosse questa sua definizione. Egli che aveva detto l’arte essere la «creazione della bellezza», e di questa sua definizione s’era compiaciuto, come della più nuova e perfetta, comeché essa per la prima al concetto di creazione, combinazione o immaginazione, da tutti riconosciuto come elemento primo dell’arte e come tale consacrato dalle stesse parole ποίησις e Dichtung, avesse accoppiato quello generalmente trascurato di bellezza35, non aggiunge che un solo e non adeguato aggettivo per segnare la distinzione della specie dal genere. E dice «creazione ritmica della bellezza», mentre, evidentemente, avrebbe dovuto dire «creazione della bellezza per mezzo del ritmo», perché il ritmo cui egli nel suo pensiero intende non è quella legge che governa ogni manifestazione fisica o psichica, ma è solo una proporzione e rispondenza di suoni; e, ancora, non è come di un attributo della creazione ch’egli vuol parlarne, ma come d’un elemento della particolar forma di bellezza creata. Ma pure così modificata, la definizione non potrebbe accettarsi. Non è il solo ritmo che dà alla poesia delle parole la sua figura individuale; non la dà, si può dire, neppure alla musica! E se di qualche manifestazione musicale, come della Cavalcata delle Walchirie (Max Nordau lo permette), potrà dirsi creazione della bellezza per mezzo del ritmo, di nessuna poesia potrà ripetersi la stessa cosa, ché non è lecito tener conto del solo elemento musicale a tutto scapito dell’ideologico. Né Poe, io credo e me ne dispiace pei poeti sinfonisti, volle affermare una tal cosa. Già, accennando alla filosofia della composizione, abbiam notato quanta cura il poeta ponesse nello scegliere certe idee per giungere all’effetto poetico; e che più non dichiara egli stesso che «la musica combinata con un’idea piacevole è poesia; senza idea è semplicemente musica?»36. Ma il sottile ingegno di Poe non ha errato che apparentemente: quella nozione della poesia non è,m io credo, una definizione, ma il sunto d’una definizione. Fu Rufo Griswold, il collaboratore e l’infamatore della memoria del poeta, che nella prefazione ad una sua opera, The poets and poetry of America, una specie di antologia storica della letteratura americana, scrisse: «la creazione della bellezza, la manifestazione del reale per mezzo dell’ideale, in parole che si muovono in ordine metrico, è poesia». E Poe, nella recensione di quest’opera, disse che quella di Griswold era la sola vera definizione di ciò che mille volte è stato erroneamente definito37. Egli forse volle rendere la formola più breve e succosa, e come spesso accade, le tolse in verità e lucidezza, quanto le dava in colore e potenza suggestiva. Ma non è d’altra parte possibile disconoscere quanta importanza abbia l’elemento musicale nella poesia e nell’estetica di Poe. Lunghezza di versi, avvicendarsi di rime, sonorità di parole sono per lui oggetti di studio e di ricerca, intorno ai quali insiste con visibile compiacenza e consuma la propria industria per trarne effetti nuovi e non udite armonie. Il Corvo ed Ulalume, le Campane, la Dormiente ed Annabel Lee suscitano inaspettate impressioni di paura, di tristezza e d’angoscia per la sola scelta sapiente di suoni, l’improvviso ritorno di rime, la ripetizione dolorosa di versi che l’anima non aspettava più. E tutto è calcolo e ragion matematica. Via l’assurdo cumulo di leggi contraddicentesi che la prosodia classica ha tratte dallo studio dei maggiori poeti, via le disquisizioni metafisiche degli esteti. «La questione per nove decimi è matematica!» Come la mente umana prova godimento nel rimirare le geometriche armonie d’un cristallo, e il piacere proporzionatamente cresce e diventa quadrato e cubo allo scoprire di nuove corrispondenze d’angoli e di linee, così l’anima prova diletto nel succedersi di sillabe e di piedi e di versi uguali, o nel regolare alternarsi di disuguali e nel misurato vibrar delle rime reso più piacevole dalla inaspettatezza d’alcune tra esse. Il saggio The rationale of verse pone i principii della nuova prosodia, tutta numeri e quantità, innanzi alla quale non trova grazia la metrica ad accenti del poeta di Christabel38. La bellezza è ordine, misura, proporzione; solo quindi una mente ordinata, proporzionata, equilibrata può comporre le forme. Accanto ad un’estetica dell’oggetto Poe ci dà un’estetica del soggetto la quale è lontana e discorde dalle fantasticherie dei romantici tedeschi che egli vide nella Biographia litteraria e che del poeta avevan fatto un pazzo, un visionario, un mago, un dio39. «Il vero genio», egli dice nella XXIII delle Cinquanta riflessioni (e precorre la recente psichiatria), «non è il risultato d’una grande potenza mentale in uno stato d’assoluta proporzione, così che nessuna facoltà abbia un’indebita predominanza». Questo genio è «necessariamente se non universale nelle sue manifestazioni almeno capace d’universalità; e, se provandosi in ogni cosa, in una riesce meglio che in un’altra, ciò avviene semplicemente per una tal inclinazione, in virtù della quale il gusto lo guida con maggior ardore in questa che non in quella direzione». V’ha poi il talento che è la proporzione di facoltà mentali non straordinarie; e infine «v’è quel genio fattizio, quel genio nel senso popolare della parola, che non è se non la manifestazione dell’anormale predominanza di qualcuna delle facoltà mentali, e naturalmente a spese ed a scapito di tutte l’altre; è il risultato d’una malattia mentale, o meglio d’un difetto organico della mente; questo è e nulla più. Questo genio non solo fallirà se sarà sviato dal cammino che gli è tracciato dalla sua facoltà predominante, ma anche nel seguire quella strada, anche nel produrre quelle opere nelle quali si può con maggior certezza calcolare ch’egli debba meglio riuscire, darà non dubbi segni d’una infermità mentale generale40». Qui non il gergo metafisico di Kant, per cui il genio è «quell’innato talento per mezzo del quale la natura dà la legge all’arte»; o ancora «l’esemplare originalità del natural talento di un soggetto nel libero esercizio delle sue facoltà intellettive41», qui non la confusa idea di Gian Paolo il quale nel genio null’altro vede che il nottambulo che nel lucido sogno ascende alle vertiginose altezze della realtà; e non la mistica schwärmerei dei romantici tedeschi e di Coleridge, cui il genio scioglieva l’enigma dell’universo. Ma d’altra parte se al genio è negata tanta sovrannaturale profondità , non è negata l’universalità alla stregua di Kant e più tardi di Schopenhauer che nella sola arte riconoscevano il terreno propizio allo germogliare ed al fruttificare di questo albero gigantesco. È vero che le idee di Poe attorno al genio sono non solo diverse in sé da quelle di Kant, di Richter, di Coleridge e dei romantici, ma d’un ordine diverso; perché mentre queste del genio spiegano l’azione, le sue determinano le condizioni; ma è questo appunto il pregio dell’esteta americano, l’esser disceso dalle astrazioni metafisiche all’osservazione fisiologica e psicologica. E la soluzione ch’egli ha data è meravigliosamente confermata dalla psichiatria moderna, nella quale, benché la vexata quaestio, com’egli stesso la chiama, si dibatta ancora, è nondimeno sostenuto che non sempre il genio sia una manifestazione patologica della psiche, come vuole Lombroso, continuando l’idea di Moreau de Tours, ma che si debba distinguere tra geni sani, armonici, equilibrati e perciò capaci di universalità (Goethe è l’esempio più frequentemente addotto) e geni malati, degenerati, squilibrati o meglio individui geniali, ai quali l’ineguale sviluppo delle facoltà mentali turba le funzioni normali di tutta la psiche.42 «Mi si farà un’obbiezione», continua Poe, «ed è che la nozione che del genio ho data non parrà completa, perché alla grandezza ed alla proporzione del potere mentale bisognerebbe ancora aggiungere sensibilità, passione ed energia». «Ecco la risposta», egli aggiunge: «l’assoluta proporzione di cui ho parlato, quando sua propria d’una straordinaria potenza mentale, dà per risultato quell’intendimento della bellezza e quell’orrore per la deformità che noi chiamiamo sensibilità, congiunti a quell’intensa vitalità che sempre si sottintende quando si parla di energia o passione». È in questo squisito sentimento della bellezza che Poe trova la causa di questa irritabilità di cui il vatum genus va rinomato fin dai più antichi tempi. «Questa irritabilità poetica non ha tratto al temperamento nel senso volgare, ma semplicemente ad una non ordinaria lucidezza di percezione per ciò che non è giusto, lucidezza che null’altro è se non la conseguenza della vivida percezione del diritto, della giustizia, della proporzione; in una parola di τὸ καλόν. «Un torto, un’ingiustizia, fatti ad un poeta che sia veramente un poeta, l’eccitano ad un grado che al giudizio ordinario sembra sproporzionato al torto. I poeti veggono l’ingiustizia, mai dov’essa non esiste, ma molto spesso dove gl’individui non poetici non veggono ingiustizia di sorta43». Così, forse, quell’idea della sanità del vero genio cui gli psicologi giunsero a traverso l’analisi delle facoltà psichiche e l’osservazione delle manifestazioni geniali, balenò a Poe come un corollario di quel concetto euritmico ch’egli aveva della natura e della bellezza44. È per tal ragione che a queste sue idee non disdice esser poste tra quelle che costituiscono la sua dottrina estetica. Ma non per questa soltanto; ché, come più sopra s’è accennato, v’ha un’evidente corrispondenza tra queste sue idee intorno alla mente del grande artista e quelle intorno alla perfezione dell’opera d’arte. Quell’opera immaginativa ch’egli pone a sommo di tutte le altre deve avere, si ricordi, per suo carattere precipuo l’armonia degli elementi che la compongono; e si ricordi che il passaggio da questa forma suprema di bellezza ad altre manifestazioni inferiori, è segnato appunto da una maggior preponderanza e scioltezza della fantasia, dalla quale una mente sana ritrae più pena che diletto. L’opera armonica, proporzionata, senza macchia o difetto o debolezza, perfetta e bella in una parola, non sembra infine a Poe, contro la comune opinione, impossibile. Quelle ineguaglianze che raro è che manchino in un’opera d’arte, sono traccie di quelle ineguaglianze d’animo, di quell’alterna vicenda di esitazione e di depressione cui l’artista è soggetto. Questa mutevole disposizione d’animo, che è il tratto caratteristico del genio, deriva da un continuo vacillare tra l’ambizione e il disprezzo per essa. «L’ambizione di un grande intelletto è al più negativa. Egli lotta, lavora, crea, non perché l’eccellenza sia desiderabile, ma perché essere sorpassato dove si sente di poter eccellere, è cosa insopportabile». Ma date al genio uno stimolo continuo e potente, e voi avrete armonia, proporzione, bellezza, perfezione – in questo caso termini sinonimi45. Ma a questo alto risultato non è concesso di giungere con quella sola facoltà che volgarmente dicesi genio, ma fa ancora d’uopo un’abilità costruttiva fondata in parte su una gran potenza d’analisi degli effetti voluti e del necessario lavoro, in parte su qualità strettamente morali, quali pazienza, concentrazione, attenzione sempre rivolta ad uno scopo, indipendenza e disprezzo per ogni opinione che non è che opinione; e specialmente energia e industriosità. Senza queste doti pratiche non vi può essere opera di genio; e questa è la ragione per la quale, mentre così numerosi son gli uomini detti di genio, così scarse son le opere che meritino questo alto attributo: ben lo sapevano i Romani, acutissimi osservatori, ai quali il maggior pregio d’un poema epico o altro simile lavoro era d’essere scritto industria mirabili o incredibili industria46. Queste parole confermano, illustrano e completano quanto già dicemmo parlando della freddezza e dell’impassibilità dell’opera d’arte. Caratteri oggettivi e soggettivi, esteriori ed interiori, qualità dell’opera creata e della mente creatrice ora sui corrispondono, ora si fondono, sempre si spiegano a vicenda. Parrebbe quasi che tra l’intelletto del poeta e l’opera d’arte Poe ritrovasse quella perfetta reciprocanza d’adattamento ch’egli, ignaro di leggi biologiche, osservava con sommo stupore nell’ordine fisico, e chiamava divina. Con quella stessa ingenuità con la quale nell’Eureka47 si domandava se nelle terre polari l’olio di balena abbondasse, perché il corpo umano, per mantenere il suo calore animale, ha bisogno di un nutrimento fortemente azotato, oppur fosse l’unica cosa di cui si ha bisogno, perché è l’unica che vi si trovi; e dichiarava che nessuna soddisfacente risposta avrebbe potuto darsi alla cavillosa domanda perché l’universo, opera divina, è un perfetto intrigo48; con la stessa ingenuità, forse, egli pensava che l’eccelsa opera d’arte deve necessariamente esser lucida ed armonica, perché di tali doti è fornita la mente che la produce, e che di lucidezza e d’armonia dev’esser ricca la mente, perché tali sino le doti che nell’opera d’arte richiedono, senza che si possa dire quale delle due necessità sia all’altra preordinata.
Note
34 Longfellow’s Ballads, vol. IV, pag. 357 – The poetic principle, vol. III, pag. 204.
35 Longfellow’s Ballads, vol. IV, pagg. 355-56.
36 Letter to B., vol. III, pag. 318.
37 The poets and poetry of America, vol. IV, pag. 315.
38 The rationale of verse, vol. III, pag. 219 – Marginalia, vol. III, pagg. 428, 429, 443.
39 Fra tanti esempi questo passo di Novalis (Schriften, Belrin, Riemer, 1837, II Theil, pag. 219): «il senso poetico ha una stretta parentela col senso profetico e religioso, con la pazzia sovra tutto».
40 Fifty suggestions, vol. III, pagg. 484-86.
41 Kant, Kritik der Urtheilsharaft, parte I, lib. II, § 46 e 49.
42 Su questa distinzione si fondano la nota opera del Nordau: Entartung, quanto il libro dell’Hirsch: Genie und Entartung (Berlin, Coblentz, 1894) nel quale Nordau è aspramente combattuto.
43 Fifty suggestions, XXII, vol. III, pag. 484.
44 Cf. Eureka, vol. III, pagg. 177, 185.
45 Marginalia, LXX, vol. III, pag. 385.
46 Ibid.
47 Vol. III, pag. 177.
48 «A perfect plot». A questa perfetta reciprocanza d’adattamento dovrebbe mirare il compositore di novelle, disponendo i vari incidenti per tal modo che il lettore di nessuno potesse dire se dipende da un altro oppure lo sostiene (ibid.). V. in questo senso anche il Saggio su Dickens /vol. IV, pagg. 109-129). Poe stesso ha cercato di raggiungere questa perfezione in parecchi suoi racconti, quali The murders in the Rue Morgue, The mystery of Mary Roget, The purloined letter, ecc.
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