L’idea che Coleridge tolse dalle Prelezioni d’estetica 9 di Gian Paolo Richter il più bizzarro spirito tedesco e pose a fondamento della sua dottrina estetica, la distinzione cioè tra la fantasia (fancy, Einbildungskraft) che combina e l’immaginazione (imagination, Bildungskraft) che crea, è più volte e lungamente combattuta da Poe10. «Tra le due», egli dice, «non v’è differenza, neppure di grado. Tanto crea la fantasia, tanto l’immaginazione, cioè nessuna delle due. Le nuove concezioni sono semplicemente combinazioni inusate. La mente dell’uomo non può immaginar nulla che non esista realmente; s’ella potesse, creerebbe non solo idealmente ma sostanzialmente, come fanno i pensieri di Dio. Alcuno dirà: noi immaginiamo il grifone, e pure il grifone non esiste. Non il grifone, certamente, ma le parti che lo compongono. Ecco non è più una combinazione di membra, tratti e qualità conosciute». Ma se quegli stessi limiti che contengono ogni cosa umana definiscono anche l’immaginazione e la fantasia, non perciò dovrà dirsi ch’esse siano una cosa stessa. La mente creatrice (non di forme, s’intende, di cui ella è soltanto combinatrice, ma del risultato finale, la bellezza) può, secondo Poe stesso, manifestarsi in un’opera d’arte con maggior intensità, con diversa attitudine. S’hanno quindi l’immaginazione, la fantasia (fancy), il capriccio (fantasy) e l’humour, ognuno dei quali dà all’opera un vario colorito, suscita nell’animo di chi legge una diversa impressione. «Dei quattro l’immaginazione è l’artista. Tra le nuove combinazioni di vecchie forme che le si presentano, ella sceglie quelle soltanto che sono armoniche: il risultato, naturalmente, è la bellezza stessa, usando la parola nel suo significato più esteso, che comprende anche il sublime…». «È questa perfetta armonia», e qui l’estetica dell’oggetto corre parallela all’estetica del soggetto, «che spesso fa sì che dai cattivi intenditori l’opera immaginativa non sia, pel carattere d’evidenza e facilità11 che essa le aggiunge, apprezzata quanto merita. Noi possiamo trovarci a dimandare a noi stessi, perché mai queste combinazioni non sono state immaginate prima?» Quando questa domanda non si presenta allo spirito, quando al nuovo s’aggiunge l’inaspettato, e l’armonia è più negletta, quando la combinazione non è soltanto rara, ma ci colpisce come una difficoltà felicemente superata, allora il risultato appartiene alla fantasia; e benché assolutamente sia meno bello di un difetto puramente armonico, pure generalmente piace di più. La fantasia che insiste nei suoi seducenti errori trasmoda in capriccio, il quale si compiace non soltanto della novità e della inaspettatezza, ma della mancanza di proporzione. «Il risultato è perciò abnorme e ad una mente sana reca meno piacere per la sua novità che pena per la sua incoerenza». «E se la fantasia fa ancora un passo innanzi e cerca elementi non solo sproporzionati ma incongrui e antagonistici, l’effetto diventa più piacevole per la sua maggior positività; la verità fa un gaio sforzo per scuotersi di dosso ciò che non le appartiene, e noi ridiam senza ritegno, riconoscendo l’humour»12. Altrove13 la distinzione sostanziale è combattuta con le stesse parole, ma un’altra idea che non quella della misura e della proporzione è posta a fondamento della differenza tra le varie forme in cui si manifesta la mente combinatrice: l’idea del misticismo nel significato, dice Poe, che Augusto Guglielmo Schlegel e la maggior parte degli altri critici tedeschi danno a questa parola. «Essi l’applicano a quella classe di composizione nella quale sotto la trasparente corrente superiore del significato giace una corrente inferiore o suggestiva. Ciò che noi vagamente chiamiamo la moralità d’un sentimento è la sua mistica o secondaria espressione. Essa ha l’immensa forza d’un accompagnamento nella musica. Questa vivifica il canto, quello spiritualizza la concezione fantastica, e l’eleva all’altezza dell’ideale». Tutte le opere, in fatto, cui si dà il nome d’immaginative «sono notevoli per questo carattere suggestivo, sono fortemente mistiche; basti ricordare il Prometeo vinto di Eschilo, l’Inferno di Dante, la Distruzione di Numanzia di Cervantes, il Como di Milton, il Vecchio Marinaio, Christabel e Kubla Khan di Coleridge, l’Usignolo di Keats, e più specialmente la Sensitiva di Shelley e l’Ondina di De la Motte Fouqué». Federico Schlegel, Bernhardi, Tieck, Novalis vanno compresi tra quegli altri critici (poiché ciascun romantico tedesco era ad un tempo poeta, storico, filosofo e critico) che Poe non ha nominati, bastandogli di pronunziare il nome del massimo pontefice, Augusto Guglielmo Schlegel. L’idealismo trascendentale di Schelling, il misticismo di Spinoza avevano condotta la dottrina estetica romantica, sempre incerta, sempre cangiante nella mobilità del «divenire», a scegliersi una norma suprema, nella quale una considerazione obbiettiva temperasse un poco quel carattere di subiettivismo assoluto e prepotente che Federico Schlegel le aveva dato, allor che volle render signore dell’Arte l’onnipossente «Io» di Fichte, elevando a canone supremo della poesia romantica la teoria dell’«ironia». Fu quindi trovato che ogni bellezza è allegoria, che poetare è un eterno simbolizzare, che ogni cosa è innanzi tutto, in quanto con l’apparenza manifesta il proprio essere, simbolo di se stessa; poi simbolo di tutto ciò con cui sta in più stretti rapporti, finalmente specchio dell’universo intero14. Ma due cose, forse, Poe ignorava. E l’una è che dietro l’allegoria romantica si nasconde una didascalia non così vaga, così indefinita, così eterea, com’egli stesso se la proponeva nel Conqueror Worm o Coleridge nell’Ancient Mariner o Shelley nella Sensitive Plant, ma una didascalia più concreta e quindi più pesante e più apparente, com’è , ad esempio, quella di cui egli rimprovera Longfellow15, accusandolo, non a torto, d’esser troppo imbevuto dello spirito della poesia tedesca. Le parole di Federico Schlegel: «ogni poesia dover essere didattica in quel vasto significato della parola, nel quale essa designa la tendenza verso un significato più profondo ed infinito», non debbono trarre in inganno. Pei romantici questo «significato profondo ed infinito» è dato soltanto da quel denso strato di idee metafisiche ed etiche intorno all’amore, alla religione, alla poesia, all’universo, da cui parte, a cui tende ogni manifestazione del loro intelletto. La mente di Poe, invece, non è paga che nella contemplazione della bellezza. Degli ultimi due componimenti poetici ch’egli ha ricordati tra gl’immaginativi, la Sensitive Plant di Shelly e l’Undine di De la Motte Fouqué, egli dice: «Questi sono i più belli esempi che mai del puramente ideale. V’è poco di fantasia e tutta immaginazione. Con ciascuna nota della lira s’ode un’eco spirituale, e non sempre distinta, ma augusta e che eleva l’anima. In ogni raggio di bellezza che c’è presentato, noi sorprendiamo, a traverso vaste e nuove prospettive, inebbrianti visioni di una bellezza suprema molto più eterea. Non così nelle poesie che gli uomini si son sempre ostinati a chiamare fantasiose. In queste la corrente superiore è spesso splendida di luce e bellezza; ma gli uomini sentono ch’essa è tutto. Nessuna voce di Naiade parla dal fondo. Le note delo canto non tremano con gli accordi dell’accompagnamento16». Tutta la differenza tra l’allegorismo, simbolismo o misticismo poetico quali i critici romantici tedeschi l’intendevano, e quello che Poe, pur credendo d’interpretare il loro pensiero, poneva a fondamento d’ogni vera ed alta poesia, è in questo passo raccolta e spiegata. Dietro l’opera d’arte quelli cercavano l’idea per sé, l’esteta americano, l’idea in quanto fosse a sua volta generatrice d’altre impressioni poetiche, d’altre immagini di bellezza; quelli, a forza di ragionare sugli uffici e gli scopi dell’arte e dei suoi rapporti con gli altri fenomeni umani, erano riusciti, se mi si concede di così dire, ad una teleologia estetica; questo fu fra i primi e più caldi e più esclusivi ammiratori dell’arte per l’arte, the poem for the poem’s sake. La poesia, egli dice (e tutto il saggio sulle Ballate di Longfellow e quello sul Principio poetico non sono che lo svolgimento di questo pensiero), non riconosce altro signore che il gusto. Morale e verità, fini didattici e fini etici le sono estranei: qualche volta potrà moralizzare, ma a sua guisa. «Non le è proibito di dipinger la virtù, ma di ragionare e di predicarla. Come la coscienza riconosce l’obbligazione della virtù, così l’intelletto ne insegna la convenienza, mentre il gusto si contenta di palesarne la bellezza, muovendo guerra al vizio soltanto sul terreno della sua incompatibilità con la giustezza, l’armonia, la proporzione, in una parola con το καλόν17». Qualche romantico tedesco, è vero, seppe talvolta, liberati gli occhi dalle crasse nebbie metafisiche, guardare in alto alla pura bellezza: così (ma quanta distanza ancora dalla poesia inglese!) Federico de La Motte Fouqué nell’Undine: ma il misticismo di qualche gregario che erroneamente Poe credette fosse quello di tutti gli scrittori della scuola, non piacque (ed è questa la seconda cosa ch’egli ignorava) al supremo moderatore del movimento, ad Augusto Guglielmo Schlegel, il quale ammoniva che continuando per quella via «l’arte sarebbe ancora così sublimata, che non si sarebbero più fatte poesie, ma mere ombre di poesie»18. Alla natura della poesia, al lavorio della mente combinatrice debbon rispondere le doti estrinseche e sensibili delle quali dev’esser ricca l’opera d’arte. Il principio che nuove il poeta è l’aspirazione verso quella divina bellezza, che gli illumina e gli arde l’anima; la manifestazione di questo principio, vale a dire il risultato cui l’opera d’arte deve giungere, l’effetto ch’essa deve produrre è la pura elevazione dell’anima stessa, è un eccitamento dell’anima indipendente da quella passione che è l’intossicamento del cuore, o dalla verità che è il soddisfacimento della ragione19. La vera, l’alta opera d’arte non deve quindi esser passionale. La passione, nel comune significato, è bassa e grossolana, rivela troppo la debolezza e l’imperfezione dell’umana natura per poter essere elemento di quella bellezza che è tutta serenità ed armonia. Poesia e passione sono discordi: questa intossica il cuore, quella, eccitandola, eleva l’anima20. Gli stessi pensieri con le parole medesime aveva già espresso Schiller nei suoi numerosi scritti di estetica. Il maggior rimprovero ch’egli muove a Bürger è di mancar dell’arte d’idealizzare per non aver puro e completo «quell’ideale di perfezione che alberga nell’anima del poeta»; è di trasmodar troppo spesso dall’entusiasmo nel delirio, dall’ardore nella furia, di guisa che «lo stato d’animo, col quale si depone il libro delle sue poesie, non è quell’armonica e consolante disposizione in cui noi ci vogliam vedere trasportati dal poeta»21. Che la rappresentazione poi della nuda passione, piacere e dolore, sua una cosa comune o bassa è il principio fondamentale di tutto lo studio Sul patetico22, è un pensiero che spesso ricorre nelle Lettere sull’educazione estetica dell’uomo23, e specialmente nella ventesimaseconda, ove si leggono queste parole: «V’ha un’arte bella della passione, ma un’arte appassionata è una contraddizione, perché l’inevitabile effetto del bello è la libertà dalle passioni. Né meno contraddittorio è il concetto d’un’arte bella che abbia per fine d’insegnare (didattica) o di migliorare (morale), poiché nulla contrasta di più col concetto della bellezza che dare alla mente una determinata tendenza». Sarebbe però pericoloso affermare che questi pensieri di Schiller e di Poe, espressi con le stesse parole, siano identici; abbiamo cioè il medesimo contenuto; siano per così dire, d’una stessa consistenza e d’una stessa densità: molte idee, molti principii, tolti tutti dalla filosofia kantiana, ed all’estetica di Poe forse ignoti, certo estranei, formano non il sostrato soltanto, ma la sostanza onde son materiate le dottrine di Schiller24. La necessità oggettiva della non-passionalità dell’opera d’arte trova, secondo il poeta americano, nelle menti armoniche un sussidio ed una corrispondenza. «Ogni forte emozione mentale stimola tutte le facoltà mentali; così il dolore l’immaginazione; ma di quanto si rafforza l’effetto, di tanto s’attenua la causa. La fantasia eccitata trionfa, il dolore è domato, represso, non è più dolore. In questa disposizione noi siamo poetici, ed è chiaro che una poesia allora scritta sarà poetica nell’esatta misura della sua non-passionalità… Le poesie elegiache dovrebbero assumere questo carattere (quello d’una dolce melanconia) o indugiarsi puramente sulla bellezza morale o fisica della persona morta; o, meglio ancora, sciogliere l’inno del trionfo. Io ho cercato di dar vita a quest’ultima idea in alcuni versi che ho intitolati Lenore25». E in Lenore il poeta, che prima non sa frenare il pianto per aver perduta la donna così puramente amata: E, Guy de Vere, non hai tu lacrime?… piangi ora o mai più, reprime poi l’acerbo dolore che scoppia in ira contro l’invido volgo, e, finalmente rasserenato, accompagna col canto l’ascensione della candida anima alle sfere celesti. Via! Questa notte il mio cuore è leggiero. Non voglio levare un funebre canto Ma cullar l’angelo nel suo volo con un antico peana! Non suoni campana mortuaria! – ché portebbe la dolce sua anima, tra il gaudio superno, Udir la triste nota, mentre su su s’eleva dalla terra dannata. Per amici, lassù, dai demoni di qui basso, lo spirto sdegnato è strappato, Dall’inferno per un alto loco su nel profondo cielo, Dall’afflizione e dal duolo per un aureo trono accanto al Re del cielo! L’Adonais di Shelley dovette risuonare all’orecchio del poeta mentre componeva questa sua Lenore. Il culto di Keats doveva render caro a Edgardo Poe il canto che il cuore di Shelley sciolse all’infelice amico; e la dolcezza della melodia e lo splendore delle immagini, mai attenuata, mai offuscato dall’intenzione filosofica, dovettero renderglielo, con la Sensitive Plant, la più ammirata tra le opere del cantore di Prometeo. Il dolore del perduto amico, lo sdegno contro gl’invidi, che, secondo la leggenda, ne avevano affrettata la morte col selvaggio scherno dell’Endymion, non muovono l’animo del poeta a impeti di passione; ma la calda fantasia chiama a piangere intorno al nobile corpo tutto ciò che il giovine aveva amato, e, fosse forma, colore, odore o dolce suono, aveva trasformato in pensiero. Finché cessa il compianto: il giovane non è morto ma s’è trasfuso nella natura ed alla musica dell’universo mesce la sua voce; è divenuto parte di quella bellezza che un dì egli fece più bella he is a portion of the loveliness which once he made more lovely. Ma già, del resto, l’autore di Christabel e della Canzone del vecchio marinaro, Samuele Taylor Coleridge, le cui dottrine estetiche il poeta americano, come appare da più luoghi deis suoi scritti, a volte pregiava, a volte combatteva, secondo che fossero scaturite dal bizzarro ingegno tutte avvolte nell’alto idealismo inglese, o già la metafisica tedesca le avesse fatte più pesanti, aveva accennato a questa trasformazione delle emozioni mentali in immagini di bellezza nella prefazione alle proprie poesie. «Dopo le più violente commozioni del dolore, la mente chiede un po’ di svago, e può trovarlo soltanto nell’occuparsi; ma tutta piena delle recenti sofferenze, non può sopportare alcuna occupazione che in qualche misura non vi si riferisca… L’espansività della nostra natura ci porta a descrivere i nostri propri dolori; nello sforzo di descriverli s’esercita l’attività intellettuale, e dall’attività intellettuale risulta un piacere che a poco a poco s’associa, e, correggendolo, si mischia al penoso soggetto della descrizione». È questa azione prima alterna poi combinata dei due sentimenti, il doloroso e il piacevole, che dà all’opera d’arte un altro speciale carattere, il tono d’una dolce tristezza, d’una soave melanconia. Coleridge, Shelley26 e Poe, benché muovano da considerazioni diverse, affermano ad una voce che ogni alta poesia non può essere che melanconica, e le parole della Philosophy of composition: «l’esperienza ha mostrato che questo tono (il tono della più alta manifestazione della bellezza) è quello della tristezza. La bellezza di qualsiasi sorta nel suo supremo sviluppo eccita sempre le anime sensitive alle lagrime», non furono certo scritte senza pensare alla commozione che l’animo prova nel leggere qualcuna delle più delicate poesie di Coleridge e Shelley27. Chiarezza e brevità sono infine altre doti, senza le quali l’opera d’arte non è perfetta, non rivela l’alto suo principio, non risponde al suo scopo. Le parole con cui Poe, togliendo pretesto dalla critica dell’Orion, poema di R.H. Horne, sferza quegli scrittori che per parer profondi avvolgono la vanità delle loro idee in un gergo incomprensibile e specialmente quei critici che non lodano se non le opere ch’essi dicono trascendentali, sono le più violente che mai gli siano uscite dalla penna. Il linguaggio serve a promulgare il pensiero, egli osserva. Chi non sa farsi comprendere, taccia; e s’egli, orfico o veggente o come più gli piaccia chiamarsi, crede che la sua idea, «l’idea che per special mandato della Provvidenza è chiamato ad evolvere, è così ampia e così nuova che le parole ordinarie nelle ordinarie disposizioni sono insufficienti al suo comodo svolgimento», aspetti pure che s’inventi qualche sistema mesmerico di comunicazione28. Le acerbe parole che Poe rivolge contro ai «trascendentalisti» che allora tenevano il campo, giungono sin quasi a Tennyson, nel quale si trasfuse parte dell’anima di Keats, di Coleridge e di Shelley e che Poe amava ed ammirava sopra ogni altro poeta. «Sulle ruine di Shelley, il più nobile, il più libero, il più impulsivo dei poeti, sorse una scuola – una scuola, un sistema di regole fondato da Shelley che non ne ebbe nessuna! – che volle imitarne la bizzarreria senz’averne la profondità e il calore; ed all’oscurità, alla stranezza, all’esagerazione intessé ancora il didatticismo di Wordsworth e il metafisicismo di Coleridge!» Tennyson nei suoi primi anni v’appartenne, ma tosto i suoi stessi eccessi lo condussero a tramutarsi ed a formarsi uno stile tutto proprio, il più vero ed il più puro di tutti gli stili poetici. Questa tinta di bizzarreria che gli è restata rare volte è affettazione, mai oscurità; essa è anzi un elemento della bellezza poetica, secondo la sentenza di Bacone: «non v’è squisita bellezza senza un poco di stranezza nella sua proporzione»29. Ma i trascendentalisti non sanno usare di questo elemento di bellezza e d’idealità: ne fanno il canone assoluto d’ogni poesia, sono oscuri perfino nella descrizione del sublime e dimenticano che la forma piana e diretta e la costruzione semplice dei versi sono il mezzo migliore per produrre un’efficace impressione30. Non meno della chiarezza, la brevità è requisito essenziale per produrre l’effetto poetico. A Poe ogni lungo poema è un paradosso, una contraddizione in termini. «Un poema», egli dice, «in tanto è degno di questo nome in quanto eccita, elevando l’anima: il suo valore è in ragione di questo eccitamento. Ma tutte le eccitazioni sono, per necessità fisica, passeggiere. Il grado d’eccitazione che darebbe al poema il diritto di portar senza ingiustizia questo nome, non può essere mantenuto per tutto un componimento di una certa lunghezza. Scorsa una mezz’ora, al massimo, essa s’affievolisce, svanisce, cede ad un opposto stato d’animo, ed il poema allora, nell’effetto e nel fatto, non è più tale31». E non vale portare a sostegno della contraria opinione l’esempio di lunghi e celebrati poemi. Così il «Paradiso perduto potrà esser considerato poetico soltanto quando, non tenendo più alcun conto di quel vitale requisito d’ogni opera d’arte, l’unità, noi lo riguardiamo semplicemente come una serie di poemi più brevi. Se, per preservare la sua unità, la sua totalità d’’effetto e d’impressione, noi lo leggiamo (come sarebbe necessario) d’un sol fiato, il risultato non sarà che una costante alternativa d’eccitazioni e di depressioni», di guisa che l’effetto, per l’elisione degli opposti effetti parziali, sarebbe assolutamente nullo. Per contro poi, anche una indebita brevità è dannosa alla bellezza d’un poema: l’effetto d’un componimento troppo breve potrà talvolta esser brillante e vivido, ma non sarà mai profondo e duraturo: il poema deve, secondo una bella immagine, lasciar sull’anima quella morbida e ferma impressione che il suggello lascia sulla cera32. Se tanta è l’importanza di questo elemento di bellezza, non parrà strano che il poeta, quando volle comporre il Corvo, abbia innanzi ad ogni altra cosa pensato a fissarne la lunghezza, ch’egli credette non dovesse oltrepassare un centinaio di versi33.
Note
9 Vorschule der Aesthetik. Vedi: Brandl, Samuel Taylor Coleridge und die englische Romantik, Berlin, Oppenheim, 1886, pag. 334 e segg. Poe ignora la provenienza tedesca (la filosofia kantiana) di quest’idea e l’attribuisce senz’altro a Coleridge.
10 Vedi il Saggio su Tommaso Moore (vol. IV, pag. 366), quello su N.P. Willis (ib. pag. 414, nota) e quello sul Principio poetico (vol. III, pag. 211).
11 Con queste due parole traduciamo l’inglese «obviousness».
12 N.P. Willis, vol. IV, pagg. 414-416, nota.
13 Thomas Moore, vol. IV, pag. 369.
14 Cfr. Haym, Die romantische Schule, Berlin, Gaertner, 1870, pagg. 492, 691 e seg.; 773 e seg., ecc.
15 Longfellow’s Ballads, vol. IV, pag. 351.
16 Thomas Moore, vol. Iv, pag. 370.
17 Similmente dice Shelley nella Defence of Poetry: «Obscenity which is ever blasphemy against the divine beauty of life» (l’oscenità che è smepre un blasfema contro la divina bellezza della vita).
18 Haym, op. cit., pag. 857.
19 Vedi: The poetic principle e The philosophy of composition.
20 Cullen, Bryant, vol. IV, pag. 207 – Amelia Welby, vol. IV, pag. 230 – The poetic principle e The philosophy of composition.
21 Vedi il saggio Ueber Bürger’s Gedichte.
22 Ueber das Pathetische.
23 Ueber die asthetische Erzielung der Menschen, lettere dirette al granduca di Holstein-Augustenburg.
24 Poe, per sua stessa confessione (vol. IV, pag. 93) tolse quelle idee da Coleridge.
25 Amelia Welby, vol. IV, pag. 230.
26 «… melancholy which is inseparable from the sweetest melody. The pleasure that is in sorrow is sweeter than the pleasure of pleasure itself», ecc. (Defence of Poetry).
27 E in J.G.C. Brainard (vol. IV, pag. 170): «the omniprevalent belief that melancholy is inseparable from the higher manifestations of the beautiful is not without a firm basis in nature and in reason».
28 R.H. Horne, vol. IV, pag. 91.
29 Vol. IV, pagg. 87, 257.
30 Vol IV, pagg. 169, 231.
31 The poetic principle, vol. III, pag. 177 – The philosophy of composition vol. III, pag. 268 – Nathaniel Hawthorne, vol. IV, pagine 215 e 227.
32 The poetic principle, vo. III, pag. 199.
33 The philosophy of composition, vol. III, pag. 268.
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