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Altro racconto di cui Poe cambiò il titolo. “Il dominio di Arnheim” (The Domain of Arnheim) fu inizialmente intitolato “The Landscape-Garden” (Il giardino-paesaggio”). Del manoscritto iniziale non è sopravvissuta alcuna bozza.
Secondo Mabbott, Poe scrisse il racconto nella primavera del 1842, subito dopo aver lasciato la sua direzione del «Graham’s Magazine», e lo terminò entro il 18 luglio, proponendolo a J. e H.G. Langley, editori del periodico «Democratic Review», che non lo acquistarono.
Si pensa che comunque restituirono il manoscritto a Poe, che lo offrì ai redattori della rivista «Ladies Companion», che invece l’acquistarono. “The Landscape-Garden” fu infatti pubblicato nell’ottobre 1842.
Tre anni più tardi, il 20 settembre 1845, il racconto apparve sul «Broadway Journal».
È nel 1846 che Poe effettua alcune modifiche alla storia, riscrivendo l’intero manoscritto e cambiando il titolo in “The Domain of Arnheim”.
Il manoscritto del racconto “The Domain of Arnheim”
Sebbene sia andata distrutta la prima bozza del racconto, del 1842, probabilmente durante la composizione in tipografia, come è accaduto ad altri manoscritti di Poe, è tuttavia conservato un manoscritto in bella copia preparato da Poe per la pubblicazione nel «Columbian Magazine», risalente al novembre o al dicembre 1846. Il racconto fu infatti pubblicato nella rivista nel marzo 1847.
Originariamente presente nella collezione di William H. Koester, si trova ora nell’Harry Ransom Center, Università del Texas a Austin.
Il precedente proprietario era Frank J. Hogan, che lo acquistò da Frank Brewer Bemis, probabilmente acquistato a sua volta a un’asta di Stan V. Henkles del 1° luglio 1920, come articolo 331, dalla collezione di Henry Goldsmith, di New York, al prezzo di vendita di 1.900 $. Forse il manoscritto arrivò attraverso la famiglia di John Inman, editore del «Columbian Magazine» nel 1848.
Un’altra ipotesi è che sia stato salvato da uno dei tipografi, come era già avvenuto per il manoscritto del racconto “Gli assassini della Rue Morgue”. Il manoscritto era comunque danneggiato già nel 1920, diviso in due rotoli e mancante di un segmento.
Le traduzioni del racconto
La prima traduzione del racconto, in francese, si deve a Charles Baudelaire. La storia, con il titolo “Le domaine d‘Arnheim”, fu pubblicata nel 1865 in Histoires grotesques et sérieuses (Michel Lévy frères, Parigi).
Nel 1950, invece, per la traduzione di Léon Lemonnier, apparve con il titolo “Le jardin paysage”, nel volume Histories grotesques et sérieuse par Edgar Poe (Classiques Garnier, Parigi).
La presente traduzione italiana proviene dal volume Racconti curiosi e grotteschi (STEN editrice, 1924), probabile nuova edizione dell’omonimo volume uscito nel 1901 per la traduzione di Giuseppe De Rossi.
La traduzione si basa sul testo “The Domain of Arnheim” («Columbian Magazine», marzo 1847).
Il dominio d’Arnheim
Il giardino era agghindato come una bella signora distesa e voluttuosamente dormente, chiudente gli occhi dinnanzi ai cieli aperti. Gli azzurrini campi del cielo erano chiusi in un vasto cerchio adorno dei fiori della luce. Le iridi e le goccioline di rugiada attaccate alle loro foglie azzurrine, apparivano come stelle scintillanti in mezzo al turchino della sera.
Giles Fletcher.
Dalla sua nascita fino alla morte, il mio amico Ellison fu sempre spinto avanti da una ventata di prosperità. E non mi servo qui della parola prosperità nel suo significato puramente mondano: io uso di questa parola nel senso di felicità. Pareva che la persona di cui parlo fosse stata creata per simbolizzare le dottrine di Turgot, di Price, di Priestley e di Condorcet1, per fornire un esempio individualizzato di ciò che si suol chiamare la chimera dei perfezionisti. Nella breve esistenza di Ellison, mi sembra di vedere la negazione di quel dogma che pretende che nella natura stessa dell’uomo si trovi un misterioso principio, nemico della felicità. Un minuzioso esame della vita sua mi ha fatto comprendere che, in generale, la miseria della vita umana nasce dalla violazione di qualche semplice legge d’umanità: che noi possediamo, nella nostra specifica qualità, elementi di contento non ancora messi in moto e che anche ora, nelle attuali tenebre e nello stato delirante dell’umano pensiero su ciò che si riferisce alla gran questione delle condizioni sociali, non sarebbe affatto impossibile che l’uomo, come individuo, potesse esser felice in alcune insolite e assolutamente fortuite circostanze.
Anche il mio giovane amico era penetrato da queste mie stesse opinioni; e non è inutile d’osservare che l’ininterrotta felicità, la quale è stata la caratteristica di tutta la sua vita, sia stata in gran parte il risultato d’un sistema preconcetto. È positivamente evidente che con un poco meno di questa filosofia istintiva, la quale in molti casi tien benissimo il posto dell’esperienza, Ellison si sarebbe veduto precipitare dallo straordinarissimo successo della vita sua nel comune turbine di sventure che si apre innanzi a tutti gli uomini che la sorte ha voluto meravigliosamente dotare. Ma il mio scopo non è ancora quello di scrivere un trattato sulla felicità. Le idee del mio amico possono essere riassunte in poche parole.
Egli non ammetteva che quattro principii, o più strettamente quattro elementari condizioni di felicità. Quella che egli teneva come condizione principale (strano a dirsi!) era quella semplice e puramente fisica del libero esercizio all’aria aperta.
«La salute» egli diceva «che si può ottenere con altri mezzi è appena degna di questo nome».
Egli citava le voluttà del cacciatore di volpi e indicava i coltivatori di terra come i soli che, specificamente parlando, potessero essere seriamente considerati come i più felici di tutti. La seconda considerazione era l’amore della donna. La terza, più difficile a realizzarsi, era il disprezzo di qualsiasi ambizione. La quarta era oggetto di un incessante inseguimento ed egli affermava che, le altre cose essendo tutte uguali, il grado di felicità da potersi raggiungere era in proporzione della spiritualità di questa quarta condizione.
Ellison fu un uomo da notarsi per la profusione con cui la natura lo colmò sempre dei suoi doni. In gentilezza e in beltà di persona egli sorpassava tutti. La sua intelligenza era di quelle a cui l’acquisto delle cognizioni è più un’intuizione necessaria che un lavoro. La sua famiglia era una delle più illustri della nazione. Sua moglie era la più buona e la più bella delle donne. La sua fortuna era stata sempre considerevole: ma al suo uscir di minorità ritrovò che il destino gli aveva a suo vantaggio giuocato uno di quei tiri bizzarri che empiono di stupefazione l’ambiente in cui essi si producono, e che non mancano certo d’alterare radicalmente la costituzione morale di coloro che ne sono privilegiatamente colpiti.
Pare che circa un secolo avanti alla maggiore età di Ellison, in una lontana provincia morisse un tal Seabright Ellison, il quale aveva ammassato una fortuna principesca, e non avendo parenti immediati, aveva avuto l’idea di far accumulare i frutti di quella sua fortuna per cent’anni ancora dopo la sua morte. Avendo egli stesso indicato con una grande minuzia e con una infinita sagacia, le differenti maniere di rinvestimento, lasciò l’intero capitale alla persona a lui più prossimamente stretta da vincoli di sangue, e che portasse il nome di Ellison e che fosse vivente allo spirare del centesimo anno. Varî tentativi furono fatti per annullare quel singolare testamento: ma avendo essi un carattere retroattivo andarono tutti a vuoto: tuttavia era stata svegliata l’attenzione del governo sospettoso e ne derivò un decreto che proibiva per l’avvenire un simile accumulamento di capitali. Quel decreto tuttavia non poté impedire al giovine Ellison d’entrare a ventun anno, come erede del suo antenato Seabright, in possesso di una fortuna di 450.000.000 di dollari2.
Quando fu conosciuta la prodigiosa cifra di quella eredità, si fecero naturalmente un’infinità di riflessioni sulla maniera di disporne. L’enormità della somma ed il suo immediato rinvestimento affascinavano tutti coloro che pensavano alla questione. Se si fosse trattato del possessore d’una qualsiasi apprezzabile somma, si sarebbe potuto facilmente immaginare come ei si sarebbe appigliato a questo o a quello dei progetti presentati. Dotato d’una fortuna che sorpassava quella di tutti gli altri suoi concittadini, facilmente lo si sarebbe potuto supporre lanciato in mezzo alle stravaganze della moda del momento, o abbandonato in mezzo alle cabale della politica, o aspirante a un potere ministeriale, o cercante un grado in mezzo alla nobiltà, o dedicato a raccogliere vaste collezioni artistiche, o assumendo la magnifica parte di Mecenate delle lettere, delle scienze e delle arti, o dedicando il suo nome a grandi istituzioni di carità… Ma relativamente alla ricchezza inconcepibile di cui l’erede si trovava investito, questi modi e tutte le altre comuni maniere di dispendio sembravano non offrire che un campo molto limitato. Si constatò che anche al 3 per cento, la rendita annua dell’eredità non ascendeva a meno di 13.125.000 dollari3 al mese, cioè 36.986 dollari al giorno, ossia 1541 dollari all’ora, vale a dire 26 dollari al minuto.
E così la via battuta dalle supposizioni si trovava ad un tratto sbarrata. Gli uomini non sapevano più che cosa immaginare. Alcuni arrivarono fino a supporre che Ellison da se stesso si spoglierebbe d’una metà delle sue ricchezze, come rappresentanti per lui un’opulenza assolutamente superflua, e che con la ripartizione di essa arricchirebbe tutta la moltitudine dei suoi parenti. Infatti Ellison lasciò ai suoi parenti più stretti la non già comune fortuna di cui egli era possessore, prima che gli pervenisse quella mostruosa eredità.
Tuttavia io non fui sorpreso di vedere che egli aveva idee già da lungo tempo stabilite su quanto formava soggetto di tante discussioni fra i suoi amici: e la natura della sua decisione non mi inspirò nemmeno una grande meraviglia. Egli aveva soddisfatto la sua coscienza per ciò che riguardava la carità individuale. Ma per ciò che riguardava la possibilità d’un qualsiasi perfezionamento propriamente detto sulle condizioni generali dell’umanità per opera dell’uomo, debbo a malincuore confessare che egli non aveva che una ben debole fiducia. Insomma, fortunatamente o disgraziatamente, egli in generale si ripiega va su se stesso.
Egli era un poeta nel senso più nobile e più largo. Comprendeva inoltre il vero carattere, il santo scopo, la suprema necessità e la dignità del sentimento poetico. Il suo istinto gli suggeriva che la più perfetta, se non l’unica soddisfazione, propria di quel sentimento, consisteva nella creazione di nuove forme di bellezza. Alcune particolarità sia della sua prima educazione, sia insite nella natura della sua intelligenza, avevano dato alle sue speculazioni etiche una lieve tinta di ciò che appellasi materialismo: e fu forse questa sua indole che lo portò a credere che il campo più fruttuoso, se non il solo campo legittimo per l’esercizio della facoltà poetica, consistesse nella creazione di nuovi modelli di bellezza puramente fisica.
Ciò fu causa che egli non diventasse musicista o poeta, se noi vogliamo adoperare questo secondo nome alla maniera come viene quotidianamente adoperato. Fors’anche egli non s’era curato di diventare né l’uno né l’altro, solo in conseguenza della sua idea favorita, cioè che uno dei principii essenziali della felicità sulla terra deve trovarsi nel disprezzo dell’ambizione. È veramente impossibile concepire che se un genio d’un ordine elevato deve essere necessariamente ambizioso, vi possa essere una specie di genio anche più elevato che sia al disopra di ciò che chiamasi ambizione? E non possiamo noi anche supporre che abbiano esistito geni più grandi di Milton i quali pure siano rimasti «muti e senza gloria»? Io credo che, salvo il caso in cui una serie d’accidenti aguzzasse il genio più nobile, costringendolo agli sforzi ripugnanti della pratica applicazione, io credo, dico, che il mondo non abbia mai veduto e non vedrà mai la trionfatrice perfezione d’esecuzione di cui sia capace la natura umana nei più ricchi dominii dell’arte.
Ellison dunque non divenne né musicista né poeta: quantunque nessun uomo abbia mai esistito più di lui profondamente innamorato di musica e di poesia. In circostanze diverse da quelle in cui egli era avvolto, non sarebbe stato impossibile che egli diventasse pittore. La scultura, per quanto di sua natura poetica, è un’arte il cui dominio e i cui effetti sono troppo limitati perché potesse a lungo fermar la sua attenzione. Io ora ho enumerato tutte le varie parti nelle quali, secondo il concetto degli intelligenti, può diffondersi uno spirito poetico. Ma Ellison affermava che il più ricco, il più vero e il più naturale dominio dell’arte, se non il più vasto, era stato in una maniera inesplicabile negletto. Del giardiniere-paesista non era stata data una definizione come del poeta: eppure al mio amico pareva che un giardino-paesaggio offrisse a una musa speciale la più magnifica delle opportunità. Là, in verità, si svolgeva il più bel campo per lo spiegamento d’un’immaginazione applicata alle infinite combinazioni di nuove forme di bellezza: essendo gli elementi da combinare d’un ordine superiore e dei più ammirabili che possa offrire la terra. Nella molteplicità delle forme e dei colori, dei fiori e degli alberi, egli riconosceva gli sforzi più diretti e più energici della natura verso la bellezza fisica.
Ed è nella direzione o concentrazione di un tale sforzo, o piuttosto nel suo accomodamento agli occhi destinati a contemplarne il risultato su questa terra, che egli si sentiva chiamato ad impiegare i migliori mezzi ed a lavorare il più fruttuosamente possibile onde arrivare al compimento non solo del suo proprio destino come poeta, ma anche dei disegni augusti in vista dei quali la Divinità ha infuso nell’uomo il sentimento poetico.
Con la spiegazione che Ellison dava della sua frase «accomodamento agli occhi destinati a contemplarne il risultato su questa terra» egli risolveva ciò che per me era stato sempre un enigma: voglio accennare a quel fatto, per tutti incontestabile all’infuori che per gli ignoranti, che nella natura non esiste nessuna combinazione decorativa come quella che potrebbe essere prodotta da un pittore di genio. Nella realtà non si trovano paradisi simili a quelli che si schiudono sulle tele di Claudio Lorrain4. Nel più incantevole dei paesaggi naturali si scopre un difetto o un eccesso, come anche mille eccessi o mille difetti. Quand’anche le varie parti che lo costituiscono possano sfidare l’abilità d’un artista provetto, la fusione di tali parti potrà sempre essere suscettibile d’un miglioramento. In una parola, sulla vasta superficie della terra naturale non esiste un luogo dove l’occhio d’un attento osservatore non sia colpito da un qualche difetto in ciò che si chiama la composizione del paesaggio. Eppure quanto ciò si capisce difficilmente! In ogni altra materia ci si è appreso a ritenere la natura come perfetta. Nei particolari noi saremmo atterriti d’osar di rivaleggiare con essa. Chi avrà la presunzione d’imitare i colori del tulipano o di rendere più perfette le proporzioni del giglio delle valli? La critica la quale asserisce che nella pittura o nella scultura la natura dev’essere nobilitata o abbellita è in errore. Nessuna combinazione d’elementi della bellezza umana, in pittura o in scultura, può fare più che avanzarsi verso la bellezza viva e respirante. Nel solo paesaggio quel principio critico diventa vero: la critica lo ha inteso vero in quel solo punto e l’arrabbiato spirito di generalizzazione l’ha spinta a concludere che esso principio era vero in tutti i dominii dell’arte.
Ripeto che essa lo ha inteso solo in quel punto: poiché il sentimento non è né affettazione né chimera. I materialisti non forniscono dimostrazioni più assolute di quelle che l’artista trae dal suo sentimento per l’arte sua. Non soltanto egli crede ma sa positivamente che alcuni accomodamenti di materia, in apparenza arbitrari, costituiscono da soli la vera bellezza. Tuttavia le sue ragioni non hanno maturato abbastanza per cambiarsi in una formula. Rimane un lavoro riservato alla analisi, analisi d’una profondità sconosciuta fino ad ora al mondo, e sarà di ricercare tali ragioni e di formularle nettamente. Nondimeno l’artista è raffermato nelle sue idee istintive dalla voce di tutti i suoi confratelli. Supponiamo una composizione difettosa e supponiamo che una correzione venga eseguita semplicemente nella combinazione della forma e che tale correzione sia sottoposta al giudizio di tutti gli artisti del mondo. La necessità della correzione sarà ammessa da alcuno. Più ancora: per rimediare al difetto di composizione, ogni confratello avrà suggerito un’identica correzione.
Ripeto che solamente nella pittura del paesaggio, la natura fisica è suscettibile di essere nobilitata: e questa facoltà di perfezionamento in un’unica parte era per me un mistero che non avevo potuto risolvere. Tutte le mie riflessioni su ciò posavano sull’idea che l’intenzione primitiva della natura doveva aver disposto la superficie della terra in maniera da soddisfare in ogni punto il sentimento umano della perfezione nel bello, il sublime o il pittoresco: ma questa intenzione primitiva era stata mandata all’aria dalle perturbazioni telluriche che son note; perturbazioni intese tanto dalle forme quanto dai colori, nella cui fusione e correzione è riposta l’anima dell’arte. Ma la forza di questa idea era indebolita dalla conseguente necessità di considerare tali perturbazioni come anormali e prive d’ogni specie di scopo.
Fu Ellison a suggerirmi che esse erano pronostici di morte. Egli spiegava la cosa così:
«Ammettiamo che l’immortalità terrestre dell’uomo sia stata l’intenzione primitiva. Dobbiamo allora supporre un primitivo accomodamento della superficie della terra, adatto a un tal felice stato dell’uomo, stato che si è realizzato ma che prima è stato concepito. Le perturbazioni non sono state che preparativi per la sua condizione mortale, posteriormente concepita.
«Ora» seguitava il mio amico «ciò che noi consideriamo come un abbellimento del paesaggio può considerarsi come un reale abbellimento, ma soltanto sotto il punto di vista morale, ossia umano. Ogni alterazione dell’ornamentazione naturale produrrebbe forse un difetto nel quadro se noi consideriamo questo veduto nel suo insieme, da un lontano punto qualsiasi della superficie terrestre, che però non sia al di là dei limiti dell’atmosfera. Si comprende facilmente che il perfezionamento d’un particolare esaminato da vicino potrebbe guastare un effetto generale, un effetto che deve essere afferrato ad una grande distanza. Esiste forse una specie di esseri che pel passato hanno fatto parte della umanità, e che ora per essa sono invisibili, ai cui occhi, nella lontana regione dove essi sono, il nostro disordine possa apparire come un ordine e il nostro non pittoresco come pittoresco: in una parola, gli angeli terrestri, dotati d’un sentimento del bello raffinato dalla morte, e per i cui sguardi, più che per i nostri, Dio ha forse voluto spiegare gli immensi giardini-paesaggi dei due emisferi».
Nel corso della discussione, il mio amico citava alcuni passi d’uno scrittore il quale ha trattato la questione del giardino-paesaggio e che fa autorità nel genere:
«Non vi sono che due sole maniere di giardino-paesaggio, il naturale e l’artificiale. Uno cerca di richiamare l’originale bellezza della campagna, cedendo i suoi mezzi alla decorazione circostante, coltivando alberi che siano in armonia con le colline o col piano della terra vicina; ricercando e mettendo in vista quei rapporti delicati di grandezza, di proporzione e di colore che, velati all’occhio dell’osservatore volgare, pure si rivelano ovunque allo sperimentato allievo della natura. Il risultato dello stile naturale in fatto di giardini si manifesta nell’assenza di ogni difetto e d’ogni stranezza, nel predominio dell’ordine e di una sana armonia piuttosto che nella creazione di miracoli e di speciali meraviglie. Lo stile artificiale comprende tante varietà quanti sono i gusti da soddisfare. Esso implica un certo rapporto generale fra i differenti stili d’architettura. Vi sono i maestosi viali e i boschetti di Versailles; vi sono le terrazze italiane; ed anche un vecchio stile inglese, misto e variato, che ha qualche rapporto con l’architettura gotica famigliare e quella del secolo d’Elisabetta. Malgrado tutto ciò che si possa dire contro gli abusi del giardino-paesaggio artificiale, l’introduzione dell’arte pura in un ambiente rustico aggiunge una infinita bellezza. È una bellezza in parte morale e in parte fatta per piacere all’occhio per l’esposizione di un ordine preconcetto reso visibile. Una terrazza con una vecchia balaustrata coperta di musco evoca all’occhio immediatamente le persone belle che vi hanno in altri tempi passeggiato. Il più lieve indizio d’arte è una testimonianza della premura e dell’umano interessamento».
«Dalle mie precedenti osservazioni» diceva Ellison «voi comprenderete subito che io respingo l’idea espressa da codesto scrittore, di ricordare la bellezza originale della campagna. Questa bellezza originale non è mai tanto grande come quella che può esservi introdotta dall’uomo. Tutto naturalmente dipende dalla scelta del luogo che possa offrire un campo sufficiente. Quanto si riferisce all’arte di scoprire e di mettere in pratica i delicati rapporti di grandezza, di proporzione e di colore non è che una di quelle vaghe maniere di dire che servono a nascondere l’insufficienza del pensiero. La frase in questione forse significa qualche cosa, forse non significa niente e non può guidare a niente. Il dire che il risultato dello stile naturale in fatto di giardini si manifesta nell’assenza d’ogni difetto e d’ogni stranezza, piuttosto che nella creazione di miracoli e di speciali meraviglie, è una di quelle frasi adatte più alla intelligenza bassa del volgo che ai sogni ardenti dell’uomo di genio. A dir la verità, una virtù che consista semplicemente ad evitare il vizio si rivolge direttamente all’intelletto e può essere, di conseguenza, circoscritta da una regola: ma la virtù più alta che si esplica in creazione non può essere apprezzata che ne’suoi risultati. La regola non si applica che ai meriti negativi, alle qualità che consigliano l’astensione. Al di là di questa regola l’arte del critico non può che suggerire. Ci si può insegnare a comporre un Catone, ma non ci si apprenderà mai a costruire un Partenone o a pensare un Inferno. Eppure, fatta la cosa, avvenuto il miracolo, la facoltà di comprenderlo diventa universale. I sofisti della scuola negativa, che a causa della loro incapacità a creare negano la creazione, ora ne sono i più clamorosi entusiasti. Ciò che nella sua embrionale condizione di principio offendeva la loro ragione magistrale, non manca mai, nella maturità della esecuzione, di strappare l’ammirazione al loro naturale istinto di bellezza.
«Le osservazioni dello scrittore sullo stile artificiale» continuava a dire Ellison «sono meno riprensibili. Il dire che l’introduzione dell’arte pura in un ambiente rustico aggiunge infinita bellezza, è una cosa giusta. Ed è giusta anche la osservazione relativa al sentimento dell’interesse umano. Il principio, così com’è espresso, è senza contestazioni: ma al di là forse v’ha qualche cosa che bisogna trovare. Forse esiste un effetto in accordo col principio, un effetto fuori della portata dei mezzi di cui ordinariamente dispongono gli individui, che, se fosse afferrato, introdurrebbe nel giardino-paesaggio un’attrattiva che sorpasserebbe di molto quella che può dargli il sentimento dell’interesse puramente umano. Un poeta che disponesse di straordinarie risorse pecuniarie, pur conservando l’idea necessaria d’arte, di coltura o, come dice lo scrittore che abbiamo esaminato, d’interesse, potrebbe tanto bene riempire i suoi piani di nuova bellezza e di grandezza infinita sulla bellezza, da suggerir forzatamente allo spettatore l’idea d’un intervento soprannaturale. Si pensi che per la creazione d’un simile risultato, bisogna che il poeta osservi tutti i benefizi dell’interesse umano o del piano, e che nello stesso tempo egli liberi l’opera sua della freddezza e della tecnica dell’arte volgare. Nel più nudo dei deserti, nel più selvaggio dei punti della pura natura vergine, si manifesta l’arte di un Creatore; pure quest’arte non risulta che agli occhi di uno spirito riflessivo: non ha in maniera alcuna la irresistibile forza d’un sentimento.
«Ora supponiamo che quest’espressione del disegno dell’Onnipotente sia abbassata d’un grado, sia messa in armonia, sia appropriata col sentimento dell’arte umana, in maniera che una specie di cosa intermedia sia fra le due; immaginiamo, per esempio, un paesaggio in cui l’ampiezza e i termini abilmente insieme combinati e la fusione della bellezza, della magnificenza e della straordinarietà suggeriscano l’idea di cure, di cultura e di sorveglianza da parte di esseri superiori pur collegati all’umanità; allora il sentimento dell’interesse si troverà preservato e l’arte nuova da cui l’opera sarà invasa le darà tutta l’aria d’una natura intermedia o secondaria: una natura che non sia Dio né una emanazione di Dio, ma la natura quale sarebbe se fosse uscita dalle mani di quegli spiriti che volitano5 fra Dio e gli uomini».
E fu consacrando la sua enorme fortuna alla incarnazione d’una tal visione; fu nel libero esercizio fisico all’aria aperta, imposto dalla personale sorveglianza dei suoi piani; fu nello scopo permanente verso cui tendevano tutti quanti i suoi piani, nell’alta spiritualità di un tale scopo, nel disprezzo d’ogni ambizione, che Ellison seppe trarre da un’altra ambizione più eterea; fu nelle fonti perenni che quello scopo faceva sgorgare dinnanzi alla sua sete di bellezza la passione dominante dell’anima sua, che non per questo ne rimaneva saziata; fu sopratutto nella simpatia veramente muliebre d’una donna, la cui bellezza e il cui amore avvilupparono la sua esistenza di un’atmosfera colorata di cielo, che Ellison credette di poter ritrovare, e realmente trovò, lo affrancamento dalle norme ordinarie dell’umanità come anche una quantità di positivo diletto molto superiore a quanto possa irraggiare dai sogni seducenti della signora di Staël6.
Io dispero di poter dare al lettore un’idea esatta delle meraviglie che il mio amico riuscì ad ottenere. Vorrei descriverle, ma sono scoraggiato dalla difficoltà della descrizione. Fors’anche il miglior partito sarebbe quello di riunire le due nei loro estremi.
Il primo punto per Ellison doveva riguardare la scelta della località: e non appena egli cominciò a meditare su tal soggetto, la lussureggiante natura delle isole del Pacifico fermò la sua attenzione. Infatti dapprima egli aveva risoluto in mente sua un viaggio nei mari del Sud, ma gli bastò una notte di riflessione per fargli cacciare una tale idea.
«Se io fossi un misantropo» egli disse «un luogo simile mi converrebbe. L’isolamento completo, l’assoluta reclusione e la difficoltà di entrare e d’uscire sarebbero in un tal caso il desiderio dei desiderii: ma io non sono ancora un Timone7. Aspiro alla calma, ma non allo sconforto della solitudine. Io voglio riservarmi una certa autorità relativamente all’estensione e alla durata del mio riposo. Vi saranno frequentemente delle ore in cui avrò bisogno della simpatia di altri spiriti poetici per l’opera che io sarò riuscito a portare a compimento. Lasciatemi dunque cercare un luogo che non sia troppo lontano da una città popolosa, la cui vicinanza inoltre faciliterà l’esecuzione dei miei piani».
Ellison viaggiò parecchi anni alla ricerca del luogo desiderato e mi fu concesso di accompagnarlo. Mille punti che m’incantavano furono da lui respinti senza esitazione per ragioni che facilmente mi provarono che egli era nel vero. Dopo molto girare, noi trovammo un altipiano d’una bellezza e d’una fertilità sorprendenti che aveva una veduta d’un’estensione quasi come quella che si scopre dall’alto dell’Etna, ma che sorpassava di molto, in tutti i veri elementi del pittoresco, quella vista pur tanto meravigliosa agli occhi miei quanto a quelli di Ellison.
«Io non ignoro» mi disse il viaggiatore, emettendo un sospiro di profonda voluttà strappatogli dalla contemplazione di quel quadro, dopo circa un’ora d’estasi «io so che qui, nelle stesse circostanze mie, nove decimi degli uomini più delicati sarebbero soddisfatti. Questa veduta è veramente meravigliosa ed io vi prenderei diletto solo nell’eccesso del suo splendore. Il gusto di tutti gli architetti che mi è concesso di conoscere li spinge, per amor del punto di vista, a costruir le loro fabbriche sulla sommità delle montagne. In ciò v’ha un errore evidente. La grandezza, in tutte le sue esplicazioni, ma particolarmente in quella dell’estensione, sveglia, è vero, eccita, ma dopo stanca ed affatica assai. Niente di meglio, per un paesaggio d’occasione: ma niente di peggio per un ambiente costante. E nella vista costante l’espressione più riprensibile della grandezza è l’estensione; la peggior forma dell’estensione è lo spazio. Ciò è in contraddizione col sentimento e il bisogno della reclusione, sentimento e bisogno che noi cerchiamo di soddisfare ritirandoci in campagna. Se noi guardiamo dall’alto d’una montagna non possiamo fare a meno di sentirci fuori del mondo, stranieri al mondo. Chi ha la morte nel cuore evita, come la peste, le prospettive lontane.
Non fu che dopo quattro anni di ricerche che noi trovammo un luogo di cui Ellison si dichiarò soddisfatto. È superfluo senza dubbio dire dove fosse questo luogo. La recente morte del mio amico, lasciando libero l’ingresso del suo dominio a certe classi di visitatori, ha dato ad Arnheim una specie di celebrità segreta e privata se non solenne, rassomigliante in un certo modo, benché in un grado infinitamente superiore, a quella di cui per lungo tempo ha goduto Fonthill8.
Ordinariamente si andava ad Arnheim per la via del fiume. Il visitatore abbandonava all’alba la città: nel mattino passava fra le rive d’una tranquilla e domestica bellezza, dove pascolavano innumerevoli montoni, che macchiavano di bianco il verde brillante delle praterie ondulate. A grado a grado, l’impressione della coltura si cambiava in quella d’una vita puramente pastorale. Lentamente questa si annegava in una sensazione d’isolamento, che a sua volta si trasformava in una perfetta coscienza di solitudine. Di mano in mano che si avvicinava la sera, il canale diveniva più stretto, le rive si facevano sempre più ripide e si coprivano d’un frondame più ricco, più abbondante, più cupo. La trasparenza dell’acqua aumentava. Il ruscello faceva mille giri in modo che non se ne poteva mai scorgere la brillante superficie che ha una distanza di un ottavo di miglio. Ad ogni istante il naviglio sembrava imprigionato in un cerchio incantato, formato da mura di foglie, insormontabili e impenetrabili, con un cielo color d’oltremare e senza piano inferiore, con la chiglia che oscillava con un’ammirabile simmetria su quella d’una barca fantastica, che rovesciata dall’alto al basso, pareva navigare di conserva con la vera barca come per sostenerla. Il canale diventava allora una gora, e mi servo di questo termine, quantunque qui non sia esattamente appropriato, perché la lingua non mi fornisce una parola che meglio rappresenti il tratto più curioso e più speciale d’un tale paesaggio. Quel carattere di gora non appariva che per l’altezza ed il parallelismo delle rive; ma scompariva in tutto il resto. Le parti, fra le quali l’acqua scorreva sempre chiara e tranquilla, salivano a un’altezza di cento e qualche volta anche di centocinquanta piedi9, e tanto s’inchinavano l’una verso l’altra, che quasi chiudevano l’entrata alla luce; i lunghi e spessi muschi, che pendevano come pennacchi rovesciati dagli arboscelli intrecciati alle loro cime, davano a tutto quell’abisso un’aria di funebre malinconia.
Le voltate diventavano sempre più frequenti e complicate e sembravano spesso tornar su loro stesse, in modo che il viaggiatore, da lungo tempo, aveva perduto ogni idea d’orientamento. Inoltre egli era preso da un sentimento di squisita stranezza. L’idea della natura sussisteva ancora, ma già alterata e subendo nel suo carattere una curiosa modificazione; era una simmetria misteriosa e solenne, una uniformità commovente, una correzione magica in quelle opere nuove. Non si vedeva né un ramo secco, né una foglia morta; non un sasso sperduto, non un mucchio qualunque di terra scura. L’acqua cristallina scivolava sul granito liscio o sul musco immacolato con una linea così perfetta, che colpiva l’occhio e allo stesso tempo lo rapiva.
Per qualche ora si correva così traverso i meandri di quel canale, in mezzo ad un’oscurità che aumentava ad ogni istante, quando ad un tratto la barca, girando in una brusca voltata, si trovava, come se cadesse dal cielo, lanciata in un bacino circolare d’una immensa estensione, se si paragonava alla larghezza della gora. Questo bacino aveva un diametro di circa duecento yarde10 ed era circondato da ogni parte, eccetto che in quella che era di fronte al punto dove sboccava la nave, da colline alte quasi come le pareti dell’abisso, ma d’un carattere interamente differente. I loro fianchi s’alzavano a scarpata dal pelo dell’acqua con un angolo di 45 gradi, ed erano, dalla base fino alla sommità, rivestite, senza alcuna percettibile lacuna, come d’un tappeto fatto dei più magnifici fiori; in quel mare di colori odorosi e ondeggianti appena qua e là si vedeva qualche foglia verde. Quel bacino era d’una grande profondità, ma l’acqua n’era tanto trasparente che il fondo, che pareva fatto d’un denso strato di piccoli sassolini rotondi d’alabastro, diveniva a tratti distintamente visibile, ogni volta cioè che l’occhio riusciva a non vedere in fondo a quel cielo rovesciato la rispecchiata fioritura delle colline. Su queste non v’erano né alberi, né arbusti d’una qualsiasi grossezza.
Le impressioni prodotte sull’osservatore erano quelle di ricchezza, di colore, di calore, di quiete, d’uniformità, di dolcezza, di delicatezza, d’eleganza, di voluttà e d’una miracolosa stravaganza di coltura che faceva sognare a nuova specie di fate laboriose, splendide e minuziose e dotate di un gusto perfetto; ma quando lo sguardo risaliva lungo la pendice onnicolore, dalla sua congiuntura con l’acqua, fino alla sua estremità vagamente coronata dai fiocchi delle nuvole sovrastanti, era veramente difficile di non figurarsi una cataratta di rubini, di zaffiri, d’opali e di topazi, precipitante silenziosamente dal cielo.
Il visitatore che si trova ad un tratto in quella baia, all’uscir dalle tenebre della gora, è estasiato e stupefatto al tempo stesso dall’ampio globo del solo morente che egli già supponeva sepolto sotto all’orizzonte, ma che ora gli si presenta di faccia e che forma l’unica barriera d’un’immensa prospettiva, la quale si apre traverso a un’altra prodigiosa fenditura che separa le colline.
Il viaggiatore lascia allora la nave che l’ha condotto fino là e discende in un leggiero canotto d’avorio, ornato da disegni arabi, tanto dentro come fuori, d’un fiammeggiante scarlatto. La poppa e la prua di quel battello sono elevatissime fuori dell’acqua e terminano in una punta acuta, il che gli dà la forma generale d’un irregolare spicchio di luna. Esso riposa sulla superficie del bacino con la grazia d’un cigno. Il fondo, foderato d’ermellino, sostiene una copertura articolata in legno ma non si vede né un servo né un pilota. L’ospite è invitato a non perdersi di coraggio: le Parche avranno cura di lui. La gran barca scompare ed egli rimane solo nel canotto che riposa senza movimento apparente in mezzo al lago. Ma, mentre egli pensa alla via che dovrà prendere, s’accorge che la magica navicella è spinta da un movimento dolcissimo. Essa gira lentamente su se stessa fino a che la sua prua è rivolta verso il sole. Ed avanza con una velocità tenue ma gradatamente accelerata, mentre i lievi gorgoglii che produce sembrano far risuonare intorno ai suoi fianchi d’avorio una melodia soprannaturale, offrendo la sola spiegazione possibile di quella musica carezzevole e malinconica, di cui il viaggiatore incantato invano cerca intorno a sé l’invisibile origine.
Il canotto procede risolutamente e si avvicina alla barriera rocciosa del liquido viale in modo che l’occhio ne può meglio misurare le profondità. Sulla destra si alza una catena di alte colline coperte da boschi selvaggi lussureggianti. Intanto si osserva che la caratteristica di meravigliosa proprietà al punto ove la riva piomba nell’acqua persiste sempre. Non si scorge una sola traccia di quelle che adombrano le vie ordinarie. Sulla sinistra il carattere del paesaggio è più dolce e più visibilmente artificiale. Là il banco emerge dalla corrente in pendio e s’alza in una alta scarpata molto dolce, formante una larga zona di verde che ha una perfetta rassomiglianza con un tessuto di velluto ed è d’un verde così brillante che potrebbe sostenere il paragone con quello del più puro smeraldo. Quell’altipiano varia in larghezza dalle duecento alle trecento yarde e si ferma dinnanzi ad un muro alto cinquanta piedi11, il quale si estende descrivendo una quantità di curve ma seguendo sempre il corso generale dell’acqua fino e che si perde nello spazio verso ponente. Quel muro è fatto d’una roccia continua: ed è stato formato tagliando perpendicolarmente la parete del precipizio prima irta di mille irregolarità, che formava la parte meridionale del fiumicello; ma del lavoro non è rimasta traccia alcuna. La pietra tagliata con lo scalpello ha il colore dei secoli ed è abbondantemente coperta ed ombreggiata di ellere, di caprifogli, d’eglantina e di clematidi. L’uniformità delle due linee del muro, della sommità e della base è ampiamente temperata qua e là da alberi d’un’altezza gigantesca che si alzano isolatamente o a piccoli gruppi ora lungo la prateria ora dietro al muro, ma sempre in vicinanza di esso in maniera che rami immensi, specialmente di noci, passano al disopra e tuffano le loro punte nell’acqua. Lo sguardo non può andare al di là e la vista della proprietà d’Arnheim è rigorosamente vietata da un’impenetrabile cortina di foglie.
Intanto che il canotto si avvicina a poco a poco a ciò che io ho chiamato la barriera del viale liquido, si possono tranquillamente osservare tutti questi particolari. Tuttavia, avvicinandosi si sente che il suo carattere d’abisso scompare: un’altra via di scolo della baia si lascia vedere a sinistra e il muro continua anche a correre in quella direzione, costeggiando sempre il corso del ruscello. Traverso a questa nuova apertura, l’occhio non può spingersi troppo lontano, imperocché il ruscello, sempre accompagnato dal muro, si curva sempre più verso sinistra e l’uno e l’altro si trovano presto inghiottiti sotto al fogliame.
Tuttavia il battello scivola meravigliosamente sul canale sinuoso: e là, la riva opposta al muro è simile a quella che lo fronteggiava nell’altro tratto in linea retta già percorso. Colline alte che in alcuni punti prendono aspetto di montagne e coperte di una vegetazione selvaggia e lussureggiante chiudono il paesaggio.
Il viaggiatore, navigando dolcemente ma con una velocità sempre leggermente crescente trova, dopo molti bruschi rigiri, la strada apparentemente chiusa da una barriera o piuttosto da una porta d’oro brunito, curiosamente lavorata e scolpita, riflettente i raggi diretti del sole che ora si abbassa rapidamente e corona delle sue ultime fiamme tutta la circostante foresta. Questa porta è messa nella gran muraglia che qui pare traversi l’acqua ad angolo retto.
Ma dopo pochi istanti il viaggiatore s’accorge che il corso di acqua principale fugge sempre verso sinistra, seguendo una lunga curva dolcissima sempre accompagnata dal muro, mentre un ruscello abbastanza considerevole, separandosi, dal primo, s’apre una via sotto alla porta, sottraendosi così alla vista in un leggiero gorgoglio. Il canotto entra nel canaletto e s’avanza verso la porta, le cui pesanti partite musicalmente e lentamente si aprono. Il battello scivola tra di esse e rapidamente discende in un vasto anfiteatro completamente chiuso da montagne porporine, la cui base, in tutta l’estensione del loro circuito, è bagnata da un’acqua brillante. Nello stesso tempo tutto il paradiso d’Arnheim esce alla vista. Si sente sorgere una melodia che rapisce; si è colpiti da una sensazione di strani e squisiti profumi; si scorge come in un vasto sogno tutto un mondo vegetale, in cui i grandi alberi svelti dell’Oriente si mescolano cogli arbusti dei boschetti, stormi d’uccelli dorati e variopinti volano su laghi contornati di gigli, su interi prati di violette, di tulipani, di papaveri, di giacinti e di tuberose, mentre lunghi fili d’acqua allacciano insieme i loro nastri argentini,
e in mezzo a tutto ciò sorge confusamente una massa architettonica metà gotica e metà saracena, sospesa in aria quasi quasi per miracolo, che sotto ai rossi raggi del sole fa brillare le sue finestre adornate, i suoi miradores12, le sue torri e i suoi minareti e sembra l’opera fantastica di Silfi, di Fate, di Genii e di Gnomi insieme riuniti.
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1 Autori citati anche nel racconti “Celebrità”: «V’era un professore di umana perfettibilità, che citò Turgot e Price, Priestley e Condorcet, la signora De Staël».
2 Un incidente simile è avvenuto anche in Inghilterra. Il fortunato erede si chiamava Thelluson. Io ho trovato per la prima volta un caso di questo genere nel Viaggio del principe Puckler Muskau, il quale fa osservare che «nella contemplazione d’una così gran somma e dello scopo a cui può essere devoluta, v’ha qualche cosa che rassomiglia al sublime». L’idea prima od anche l’abbozzo di questo mio racconto sono stati pubblicati prima che uscisse il primo capitolo del meraviglioso Ebreo errante di Sue, il quale forse ha preso l’idea dal racconto fatto dal principe Puckler Muskau.
3 Nel testo originale è invece the annual income of the inheritance amounted to no less than thirteen millions and five hundred thousand dollars. La traduzione ha quindi tagliato la cifra annua.
4 Claude Lorrain (Gelée) (Chamagne, 16 dicembre 1600 – Roma, 23 novembre 1682), pittore paesaggista francese. Nella prima versione del racconto Poe nomina anche un altro paesaggista francese, Nicolas Poussin (Les Andelys, 15 giugno 1594 – Roma, 19 novembre 1665), e il britannico William Clarkson Stanfield (Sunderland, Regno Unito, 3 dicembre 1793 – Londra, 18 maggio 1867). Quest’ultimo è menzionato anche nella “Filosofia dell’arredamento”.
5 Letterario per “volare con volo leggero”.
6 Anne Louise Germaine Necker (Parigi, 22 aprile 1766 – ivi, 14 luglio 1817), figlia del grande ministro delle finanze francese, meglio conosciuta come Madame de Staël, celebre scrittrice e straordinaria teorica del Romanticismo europeo.
7 Timone detto il Misantropo, ateniese della seconda metà del V sec. a.C.
8 Qui corretto da Fonthille. Una prima casa a Fonthill risale al 1533, quando Sir John Mervyn acquistò la tenuta. Cento anni dopo la casa divenne di proprietà di Lord Cottington, Cancelliere dello Scacchiere durante il regno di Carlo I, che costruì un muro attorno al parco. Durante la guerra civile, la tenuta fu donata da Oliver Cromwell a John Bradshaw, Lord Presidente della commissione parlamentare che processò il re. I Cottington tornarono a Fonthill quando Carlo II fu incoronato nel 1660. Nel 1745 la casa e la tenuta furono vendute all’assessore William Beckford, Lord Mayor di Londra, che ridisegnò il paesaggio, costruendo un ponte, un tempio (una sala per banchetti) e una pagoda. Demolì anche la chiesa di San Nicola che era vicina alla casa e la ricostruì sul sito dell’attuale chiesa della Santissima Trinità a Fonthill Gifford. Nel giro di 10 anni la casa bruciò e Beckford ne costruì una nuova, conosciuta in seguito come Fonthill “Splendens”, eretta vicino al sito della vecchia casa. Costruì anche l’arco per formare un ingresso grandioso alla sua tenuta. Il figlio, lo scrittore e collezionista William Beckford (autore di Vathek, 1785) ereditò la proprietà: sviluppò il parco, estese il lago e costruì le grotte, la rimessa per le barche e un orto murato. Infine costruì Fonthill Abbey su un terreno elevato a un miglio a sud-ovest della casa di Fonthill, in una fitta foresta e lontano dalle strade pubbliche. Demolì gran parte di Splendens per procurarsi i materiali da costruzione per la sua nuova abbazia, situata in 524 acri circondata da un muro alto 12 piedi.
9 Circa 45 metri.
10 Circa 183 metri.
11 Circa 15 metri.
12 Nel testo originale non c’è.
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