È il 20 gennaio 1889 quando la rivista italiana «Vita nuova» – Periodico settimanale di letteratura, d’arte e di filosofia – inizia la sua avventura. E lo fa inaugurando il primo numero con un’inconsueta traduzione di Enrico Nencioni della celebre poesia di Poe “Il Corvo”.
“The Raven” apparve per la prima volta 44 anni prima, il 29 gennaio 1845, sul «The Evening Mirror».
Stranamente il “Corvo” di Edgardo Poe era nella rubrica “Varietà” e non “Poesia”. Fu il primo contenuto della rivista, se si esclude la presentazione “Ai lettori”, ma comparve comunque in prima pagina, in quell’eccezionale numero di 12 pagine e non 8 come i successivi.
Nonostante la poesia originale di Poe fosse in prima persona, il Nencioni – che pur non traducendola in versi, ma trasformandola in prosa, ne rispetta, per quanto possibile, il ritmo – introduce anche un narratore esterno a raccontare ciò che accade in quella famosa mezzanotte di dicembre.
Tuttavia, sebbene proposta dal traduttore come un racconto, spesso la traduzione ha saputo mantenere le scelte originali di Poe, come si osserva nelle prime 2 strofe della seconda stanza:
Ah, distinctly I remember it was in the bleak December,
And each separate dying ember wrought its ghost upon the floor.«Ah, distintamente me ne ricordo, era il freddo dicembre: e ogni tizzo di brace morente che si staccava, disegnava il suo spettro sul pavimento.
O nelle ultime due della terza:
“’Tis some visiter entreating entrance at my chamber door —
Some late visiter entreating entrance at my chamber door; — This it is, and nothing more.”«È qualcuno all’uscio di camera che domanda di entrare – qualche tardo visitatore che insiste per passare, all’uscio della mia stanza – ecco che cos’è – e nulla più.»
O ancora, nella quinta stanza:
And the only word there spoken was the whispered word, “Lenore!”
This I whispered, and an echo murmured back the word, “Lenore!” Merely this, and nothing more.Solo una parola fu mormorata appena – Leonora!… L’avevo certo bisbigliata io stesso, e una debole eco rimormorò la parola: Leonora!… Solamente questo, e niente di più.»
Un breve scritto, che richiama le atmosfere lugubri della poesia di Poe, fa da introduzione al testo. L’ambientazione scelta da Nencioni è quasi un tributo alla composizione di Poe: il buio, il camino acceso, la stagione, la donna così simile alla Leonora della poesia.
Il testo fu poi ripubblicato, con un’analisi critica dello stesso Nencioni, sulla rivista «La tavola rotonda», l’8 maggio 1892.
Non si tratta della prima traduzione in assoluto, poiché la prima fu a opera di Scipione Salvotti del 1881, contenuta nel suo volume Da tenebre luce! (romanze e ballate).
Il “Corvo” di Edgardo Poe
Era la fine di una giornata di novembre fredda e nebbiosa. Il fuoco moriva nel camminetto1 in fantastiche fiammelle azzurrognole. Nel salotto ci si vedeva appena. Ella sedeva al pianoforte; e i suoi belli occhi scintillavan nella luce crepuscolare, e la sua fronte marmorea biancheggiava fra la nera selva dei magnifici capelli. Aveva finito allora di cantare una desolata melodia di Schubert; e la sua profonda voce di contralto aveva empito di funebri note la stanza. Ora taceva: ma ogni tanto batteva dei malinconici accordi sul piano, o accennava dei motivi tristi, bizzarri, che davano ai nervi, che facevano male al cuore… M’ero alzato per suonare il campanello e far portare i lumi, quand’ella mi arrestò dicendo: «Aspettate. Voglio prima cantarvi qualche strofa del Corvo.» – E accompagnandosi da sé, fra le tenebre crescenti, cominciò lentamente con la sua voce magnetica:
Once upon a midnight dreary…
L’effetto fu immediato e indimenticabile. Mi parve di udire il leggero colpo alla porta, il fruscio della tenda di seta; di vedere il nero corvo sul busto di Pallade; e distesa fra i ceri e i fiori la vergine morta che gli angeli chiaman Leonora… Sentii tutto lo spasimo delizioso, aspirai l’acre profumo tropicale che emana dalle poesie di Edgar Poe – il veleno dei grandi fiori dalle foglie lustre e metalliche, simboli di passione e di morte.
L’idea più malinconica, l’idea della Morte, diviene essenzialmente poetica e patetica, se accompagnata all’idea di Bellezza. L’idea della perdita irreparabile, del mai risposto ai più acuti e passionati desideri del cuore, esprime lo stato psicologico più tragico che possa concepirsi da mente umana. Il Corvo di Edgardo Poe riunisce questi elementi di suprema poesia: vi sono la bellezza e la morte, l’amore e la disperazione, il fantastico ed il reale.
A mezzanotte – una fredda e burrascosa notte di dicembre – un giovine studente nella sua camera riccamente addobbata è occupato apparentemente a leggere dei vecchi libri di scienza, ma in realtà a evocare la memoria e rimpiangere la recente morte della sua diletta. La luce di quei cari occhi risplende ancora nella memore stanza; e una tristezza infinita invade il cuore del giovine in quell’ora solenne. Ma a poco a poco sta per assopirsi, piegata la testa sul libro; quando all’improvviso sente bussar leggermente, debolmente, all’uscio della stanza.
«Ah, distintamente me ne ricordo, era il freddo dicembre: e ogni tizzo di brace morente che si staccava, disegnava il suo spettro sul pavimento. Aspettavo con ansietà che albeggiasse. Invano avevo tentato di trovar nei miei libri sollievo al dolore per la perduta Leonora, per la rara e raggiante vergine che gli angeli chiaman Leonora, e che non ha più nome quaggiù. E il lieve, incerto, malinconico fremito delle rosse cortine di seta mi penetrava, mi empiva di fantastici terrori, mai prima provati. Talché, per acquietare i palpiti del mio cuore, alzatomi, andavo ripetendo a me stesso: «È qualcuno all’uscio di camera che domanda di entrare – qualche tardo visitatore che insiste per passare, all’uscio della mia stanza – ecco che cos’è – e nulla più.» E il mio spirito parve rasserenato, e, senza più esitare: «Signore, dissi, o signora, imploro il vostro perdono: ma il fatto è che io ero quasi addormentato… e voi avete bussato così leggermente, avete così debolmente picchiato all’uscio, che sono appena sicuro di avervi udito.» – E spalancai a un tratto la porta… V’eran tenebre, e nulla più! Ficcando lo sguardo nel buio, restai lungamente lì, tra la maraviglia e il terrore, dubitando, sognando in un istante dei sogni che nessun mortale ha osato sognare prima di me. Ma il silenzio non fu interrotto, la quiete restò perfetta. Solo una parola fu mormorata appena – Leonora!… L’avevo certo bisbigliata io stesso, e una debole eco rimormorò la parola: Leonora!… Solamente questo, e niente di più.»
Ma sente bussare di nuovo, e s’accorge che il rumore viene dalla finestra. L’apre – e un nero corvo entra dibattendo le ali, e va diritto a posarsi sopra un busto di Pallade collocato sulla porta della stanza, e lì rimane, muto ed immobile.
Il giovine allora non può a meno di sorridere, e gli domanda scherzando: «Che nome hai sulle plutonie rive da cui sei venuto?» Il corvo risponde: «Nevermore!» (Mai più).
Questa parola produce un effetto strano nel cuore desolato del giovine. Fa altre domande al sinistro uccello – e l’unica risposta monotona è Nevermore!
Il nero corvo seduto lassù immobile sul bianco e placido busto di Pallade non sa rispondere altro. E ai pensieri stessi del giovine risponde col suo lugubre ritornello: Never, Nevermore! Mai, mai più!
Lo studente suppone che quello sia un corvo scappato dalla casa di qualche infelice che doveva spesso ripetere nelle sue ore di angoscia la disperata parola – e che il corvo abbia imparato a ripetere macchinalmente con una insistenza instancabile. Ma per quella istintiva e misteriosa mania che hanno gli sventurati di sempre per torturarsi, il giovine prova una specie di voluttà a ripetere le domande al corvo, aspettando il previsto e spietato Nevermore.
Dalle domande casuali passa alle più serie e solenni. Dal sorridere all’aspetto grottesco del grave uccello, passa ai terrori della superstizione – e finisce col chiamarlo profeta sinistro, malefico genio, e demonio. Gli sembra che lo sguardo fisso di quei suoi occhi gli penetri in petto a bruciargli il cuore: e il lugubre Nevermore lo prostra in un abbattimento mortale. Appoggia la testa al guanciale di velluto violaceo avvivato dalla luce rossa della lampada; quel guanciale che Leonora non premerà più con la sua bella testa di angelo… no, mai più, nevermore!
A un tratto gli pare che l’aria della stanza si faccia più densa, e spirino odori di mistico incenso… È forse lei, invisibile eppur presente? Son gli angioli che agitano i celesti turiboli?… Oh sì, egli avrà pace alla fine, avranno un balsamo le sue ferite… – «Never! risponde il corvo, Nevermore!»
«Sia questa dunque l’ultima volta che tu mi ripeti questa parola. Torna fra le tempeste e le tenebre della riva infernale! Non lasciar qui una sola delle tue nere penne, come ricordo dei tuoi accenti bugiardi. Lascia quel busto sulla mia porta, leva il tuo becco feroce dal mio cuore, e la tua forma esecrabile da questa stanza!…
«Disse il corvo: Nevermore!
«E il corvo, senza più muoversi, tuttora è posato, sì, è posato tuttora, sul pallido busto di Pallade, lì proprio sulla soglia della mia stanza. E i suoi occhi somigliano quelli di un demonio che stia sognando. E la mia lampada riflette sempre l’ombra di lui sul pavimento – e la mia anima non sarà liberata mai da quell’ombra, mai più, never, nevermore!»
Nota
1 Toscano per caminetto. Ndr.
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