La lettera rubata

Indice degli argomenti

Prefazione

Breve storia del racconto. Il racconto, scritto agli inizi del 1844, apparve col titolo “The Purloined Letter” nell’antologia The Gift: a Christmas and New Year’s and Birthday Present, pubblicata a New York nel 1845. Si trattava di una raccolta di racconti, poesie e illustrazioni di vari autori.

“The Purloined Letter”, qui tradotto come “La lettera trafugata” e in altre successive edizioni italiane come “La lettera rubata”, è l’ultima delle tre storie con Auguste Dupin come protagonista, conosciuto per i racconti “I delitti della Rue Morgue” (The Murders in the Rue Morgue), pubblicato nel dicembre 1841 nel «Graham’s Lady’s and Gentleman’s Magazine», e “Il mistero di Marie Roget. Seguito di I delitti della Rue Morgue” (The Mystery of Marie Roget. A Sequel to “The Murders in the Rue Morgue”), pubblicato nel novembre-dicembre 1842 in «Lady’s Companion».

Sulla presente traduzione. Come il precedente racconto, anche questo fa parte dell’antologia Racconti straordinari di “Edgardo Allan Pöe”, pubblicata nel 1911 da R. Bemporad & Figlio e tradotto da G. A. Sartini.

Ho aggiunto 3 note al testo, dove ritenuto opportuno.

La lettera trafugata

Nil sapientiae odiosius acumine nimio

Seneca

Proprio dopo una buia e burrascosa sera dell’autunno del 18… mi godevo in Parigi la duplice voluttà della meditazione e di una pipa di spuma, in compagnia del mio amico C. Augusto Dupin, nella sua piccola biblioteca, o studio, al terzo piano del numero 33, in via Dunot, nel sobborgo di San Germano. Da un’ora almeno non avevamo più detto una parola, e ciascuno di noi, a chiunque per caso ci avesse osservati, sarebbe parso intento unicamente agli anelli vorticosi di fumo che corrompevano l’aria della stanza. In quanto a me, però, andavo volgendo nella mente certi punti che avevano formato argomento di conversazione fra noi durante la prima parte della sera, e tornavo così agli assassinii di Via Morgue, e al mistero dell’altro di Maria Roget. Pensavo dunque alla loro coincidenza, allorché l’uscio del nostro quartiere fu aperto e lasciò passare una nostra vecchia conoscenza, il signor G…, Prefetto della Polizia di Parigi.

Gli demmo sinceramente il benvenuto; non lo vedevamo da vari anni ed era uomo che se da un lato poteva garbar poco, dall’altro riusciva molto piacevole. Eravamo seduti al buio e il Dupin si alzò per andare ad accendere un lume, ma si rimise a sedere appena sentì che il signor G. era venuto per chiederci un parere, o piuttosto per domandare l’opinione del mio amico, intorno a una faccenda del suo ufficio, che gli aveva dato un gran da fare.

— Se è un caso che richiede riflessione, — osservò il Dupin nel tralasciare di accendere, — lo esamineremo meglio al buio.

— Ecco un’altra delle vostre idee strane, — disse il Prefetto, che aveva l’uso di chiamare strano tutto ciò che non arrivava a intendere, e si trovava così a vivere in mezzo a una vera legione di stranezze.

— Verissimo, — rispose il Dupin, mentre gli offriva una pipa e gli avvicinava una buona poltrona.

— E qual è dunque il caso difficile? — domandai; — spero che non si tratti ancora di assassinii.

— Oh, no; nulla di questo genere. Il caso è veramente molto semplice, e non ho alcun dubbio che potremo regolarci abbastanza bene da noi; ma ho creduto che al Dupin farebbe piacere di conoscerne i particolari, perché trattasi di un caso molto strano.

— Semplice e strano… — disse il Dupin.

— Sì; ma non è preciso dire nemmeno in tal modo. Il fatto è che ci siamo trovati di molto imbrogliati, perché il caso, quantunque sia semplice, ci confonde interamente.

— Forse:— disse il mio amico, —la semplicità stessa del caso vi porta all’errore.

— Che stoltezza dite mai! — rispose il Prefetto, ridendo di cuore.

— Forse il mistero è un po’ troppo chiaro, — soggiunse il Dupin.

— Oh, cielo buono! chi ha mai udito un’idea simile?

— Un po’ troppo evidente…

— Ah! ah! ah!… ah! ah! ah!… oh! oh! oh!… — rideva sgangheratamente il nostro ospite, divertendosi molto. — Oh, Dupin, ecco, mi farete morir dalle risa!

— Ma, insomma, — domandai, —di che cosa si tratta?

— Bene, ve lo dirò, — rispose il Prefetto, mandando una lunga boccata di fumo e accomodandosi nella poltrona; — ve lo dirò in poche parole, ma prima di cominciare debbo avvertirvi che si tratta di cosa segretissima, e che perderei probabilmente il posto, se si venisse a sapere che l’ho confidata a qualcuno.

— Andiamo avanti, — dissi io.

— O fermiamoci, — disse il Dupin.

— Ecco, dunque: sono stato personalmente informato da alto luogo, che un certo documento di grandissima importanza è stato portato via dagli appartamenti reali. La persona che l’ha trafugato è nota, non vi è alcun dubbio, perché fu veduta quando lo prendeva; ed è noto anche che il documento è tuttora nelle sue mani.

— Come si sa questo? — domandò il Dupin.

— Vien dedotto chiaramente, —rispose il Prefetto, — dalla natura del documento stesso, e dalla mancanza di alcuni resultati che verrebbero subito fuori se non fosse ancora in possesso del trafugatore; ossia dal farne uso nel modo che egli, alla fine, si propose di fare.

— Bene, oserò dire che quel foglio conferisce al suo possessore un certo potere in un certo luogo, dove questo potere ha un valore inestimabile. — Il Prefetto se la godeva nel linguaggio della diplomazia.

— Non ci capisco ancora nulla, — disse il Dupin.

— Proprio nulla? Se questo documento fosse svelato a un terzo individuo, che non si deve nominare, metterebbe in dubbio l’onore di persona di altissimo grado; ed ecco la ragione che dà a chi lo tiene un potere sull’illustre personaggio, il cui nome e la cui pace sono in pericolo. — Ma questo potere, — interruppi, — dipenderebbe dal fatto che il ladro sa di esser conosciuto dalla persona che perdette il documento? Chi oserebbe…

— Il ladro, — ricominciò il Prefetto, — è il ministro D… che osa tutto; ciò che può recar onore a un uomo, come ciò che può recargli disonore; e il modo che tenne per rubare fu non meno ingegnoso che ardito. Il documento, o, a dirla più chiara, la lettera, era stata ricevuta dalla persona a cui fu trafugata, mentre trovavasi sola nel salottino reale; e la lettura gliene fu improvvisamente interrotta dall’apparire dell’altro ragguardevole personaggio, al quale appunto desiderava nasconderla. Dopo aver tentato invano di gettarla con prestezza in un cassetto, fu costretta a metterla, aperta com’era, sopra una tavola. Però non ne fu fatto alcun caso, perché il contenuto rimaneva nascosto e non si vedeva altro che l’indirizzo; ma in quel punto entrava il ministro D…; i suoi occhi di lince si posarono sul foglio, egli riconobbe la calligrafia dell’indirizzo, osservò la confusione del personaggio a cui era diretto, e indovinò il suo segreto. Quindi trattò di vari affari che definì, secondo il suo solito, in fretta e furia, mise fuori una lettera in qualche modo simile all’altra, l’aprì, fece le viste di leggerla, e la collocò vicino alla prima; poi, per una quindicina di minuti, riprese a conversare dei pubblici affari, e finalmente, accomiatandosi, raccolse di sulla tavola la lettera che non gli apparteneva. Il legittimo proprietario vide, ma non osò, com’era naturale, di far notare quell’atto in presenza del terzo personaggio che gli stava accanto; e il ministro andò via, lasciando la sua lettera che era di nessuna importanza sulla tavola.

— Ecco dunque, — disse il Dupin, rivolgendosi a me, — come precisamente aveva domandato, quello che rende completo il potere: il ladro sa di esser conosciuto dalla persona alla quale ha rubato.

— Sì, — rispose il Prefetto, — e il potere così ottenuto è stato, da alcuni mesi, adoperato a scopi politici di pericolosissima gravità. Il personaggio a cui la lettera è stata rubata, un giorno più dell’altro resta convinto della necessità di ricuperarla; ma poiché non può richiederla apertamente, costretto dalla disperazione, ha finito coll’affidarne a me la cura.

— Io credo, — conchiuse il Dupin, in mezzo a vortici di fumo, —che non si poteva scegliere, o desiderare, persona più sagace.

— Mi adulate; ma forse si è pensato veramente di me in tal modo.

— È chiaro, — osservai, — che la lettera, come avete detto, è sempre nelle mani del ministro; giacché il possesso, non l’uso qualsiasi di essa, conferisce il potere. Usandone, il potere cessa. — È vero, — disse il G… ; — ed io vo avanti secondo questa convinzione. La mia prima cura è stata di fare complete ricerche nel palazzo del ministro, e qui mi sono trovato di fronte alla difficile necessità del farle senza che egli lo sapesse, poiché mi si avvertì del pericolo a cui si andava incontro se gli si fosse data ragione di sospettare de’ nostri disegni.

— Ma, — osservai ancora, — siete nel vostro campo con questo genere di ricerche; la polizia parigina ne ha fatte già dell’altre simili…

— Ah, sì, ed appunto per ciò non disperavo. Le abitudini del ministro mi erano molto favorevoli; spessissimo la notte è fuori di casa; i pochi servitori che ha dormono lontano dall’appartamento del padrone, ed essendo più che altro napoletani si lasciano facilmente ubbriacare. Come sapete, ho chiavi da poter aprir qualsiasi camera o gabinetto di Parigi; e per tre mesi non è passata una notte che in gran parte io non l’abbia dedicata a metter sottosopra il palazzo D… Ne va di mezzo il mio onore, e, a dirvela in gran segreto, la ricompensa è rilevantissima; cosicché ho cessato di far ricerche solo quando mi sono pienamente convinto che il trafugatore è più astuto di me: credo di avere frugato in ogni angolo, in ogni cantuccio, dove fosse possibile di nascondere un foglio.

— Ma non potrebbe essere invece, — suggerii, — che pur rimanendo la lettera in possesso del ministro, come è senza dubbio, egli l’abbia nascosta altrove, fuori della propria casa?

— Ciò non può essere, — disse il Dupin. — La particolare condizione delle cose oggi alla Corte, e specialmente degli intrighi in cui si sa che il D… è impicciato, è tale che l’aver subito il documento sotto mano, il poterlo esporre sull’istante, ha importanza quasi eguale a quella del possederlo.

— La possibilità di esibirlo? —domandai.

— Cioè, — rispose il Dupin, —di distruggerlo

— È vero, — osservai, — il foglio è indubitatamente nel palazzo; e che lo porti addosso il ministro, è cosa da non parlarne nemmeno…

— Proprio nemmeno, — disse il Prefetto. — L’ho fatto anche aggredire due volte da finti ladri, e perquisire minutamente in tutta la persona senza alcun resultato.

— Vi sareste potuta risparmiare tale fatica, — osservò il Dupin. —Credo che il D… non sia del tutto uno stolto, e debba avere prevedute queste insidie come la cosa più naturale.

— Stolto del tutto, no; — rispose il G… ; — però è un poeta, ed io considero un poeta come un uomo ch’è a un passo da essere uno stolto.

— È vero, — disse il Dupin, dopo aver fatto, cogitabondo, una lunga fumata colla sua pipa di

spuma; — sebbene anch’io sia stato colpevole di certi versucci…

— Via, — interruppi io — raccontateci precisamente i particolari delle vostre ricerche.

— Il fatto è che non abbiamo risparmiato tempo e che abbiamo frugato per tutto, tanto più che io ho lunga pratica in questo genere di ricerche. A ogni stanza del palazzo dedicammo le notti di una settimana intera; esaminammo da prima la mobilia di ogni appartamento; furono aperti tutti i cassetti possibili: suppongo che sappiate come per un abile agente di polizia non esista cassetto segreto, e chiunque in perquisizioni di questa specie permette a un cassetto segreto di sfuggire alle sue indagini non può essere che uno stupido. La cosa peraltro è facile; in ogni mobile bisogna considerare una certa quantità di grossezza e di spazio, e noi ne tiriamo regole così esatte da poter renderci conto della cinquantesima parte di una linea. Dopo i mobili con cassetti, ci volgemmo alle seggiole, ricercando nei guanciali per mezzo di quegli aghi lunghi e fini che avete veduto adoperare. Da ogni tavola togliemmo il piano…

— Perché mai?

— Talvolta il piano di una tavola, o di altro mobile simile, viene alzato da coloro che vogliono nascondere qualche cosa; si fa un buco in una delle gambe della tavola, vi si nasconde ciò che si desidera e si rimette il piano com’era prima. Così pure possono servire al medesimo scopo il fondo e il piano che coprono le gambe del letto.

— Ma non si potrebbe, — domandai, — scoprire il foro col suono, battendo la gamba o altro?

— Se ciò che si nasconde si avvolge col cotone, non si scoprirebbe nulla davvero; e poi, nel nostro caso, bisognava lavorare senza far rumore.

— Però non avete potuto risolvere nei pezzi che li costituiscono, non avete potuto disfare tutti i mobili nei quali sarebbe stato possibile di celare un foglio nel modo che avete accennato; una lettera si arrotola sottilmente in spirale, in forma non molta diversa da quella di un grosso ferro da calze, e così, per esempio, si ficca nella traversa di una seggiola: che avete frugato in tutte le parti di tutte le sedie?

— No, di certo: abbiamo fatto di meglio coll’esaminare per mezzo di un potente microscopio ciascuna seggiola del palazzo e le commettiture di tutti i mobili; e quindi in qualunque cosa si fosse toccata di recente, avremmo subito scoperto il segno. Un granellino di polvere, per dirvene una, causato da un cacciavite, l’avremmo veduto come una mela; qualunque mutamento nella colla, qualunque alterazione, spacco od altro nelle commettiture, ci avrebbe fornito indizio sufficiente del nascondiglio.

— M’immagino che avrete esaminato gli specchi, la loro cornice e il fondo; avrete cercato nei letti, nel cortinaggio, nelle tende, nei tappeti…

— S’intende, s’intende; e quando si finì d’investigare in tutti gli oggetti di questo genere, passammo alla casa stessa. Ne dividemmo l’intera superficie in compartimenti che furono numerati per non dimenticarne nessuno; e scrutammo come prima col microscopio ogni centimetro quadrato, non solo in tutta la casa stessa, ma anche nelle due che vi sono accanto. — Nelle due case adiacenti? — esclamai; — dovete aver durato una bella fatica!

— È vero pur troppo… ma la ricompensa sarebbe stata grandissima…

— Nelle ricerche avete compreso anche il suolo attorno alle case?

— Il suolo è ammattonato, e ci diede in confronto poca noia; guardammo tra mattone e mattone, e ci resultò che nulla era stato mosso.

— Avrete, senza dubbio, indagato anche nelle carte del D… e nei libri della biblioteca?

— Oh, di certo: abbiamo indagato in ogni pacco, e non solamente osservato ogni libro, ma sfogliato ogni volume, senza contentarci di scuoterlo come usano di fare alcuni de’ nostri agenti; abbiamo misurato con scrupolosa accuratezza lo spessore di ogni rilegatura, e per ciascuna ci siamo serviti della minuta indagine del microscopio. Se si fosse di recente fatta qualsiasi modificazione a una rilegatura, sarebbe stato del tutto impossibile che potesse sfuggire alla nostra ricerca. Cinque o sei volumi che uscivano appunto dalle mani del legatore, furono diligentemente esaminati con degli aghi per tutta la loro lunghezza.

— Avete anche frugato negli impiantiti sotto i tappeti?

— Senza dubbio: abbiamo sollevato ogni tappeto ed esaminato le assi col microscopio.

— E la carta delle pareti?

— Anche.

— Siete scesi nelle cantine?

— Anche nelle cantine.

— Allora, — dissi, — avete fatto male i vostri conti, e la lettera non è nel palazzo, come supponevate.

— Temo che abbiate ragione, — disse il Prefetto. — E ora, Dupin, che cosa mi consigliereste di fare?

— Tornare a nuovo profondo esame dei luoghi.

— È assolutamente inutile, — rispose il G.., ; — com’è vero che io respiro, così sono sicuro che la lettera non è in casa.

— Non ho consiglio migliore da darvi, — disse il Dupin. — Avete, s’intende, una descrizione accurata della lettera?

— Oh, di certo! — E qui il Prefetto lesse sul suo taccuino una descrizione minuziosa dell’interno, e specialmente dell’aspetto esterno del documento trafugato. Finita la lettura della descrizione, ci salutò e andò via così scoraggiato ed oppresso come mai prima d’allora avevo veduto così quel buon signore.

Un mese dopo circa ci fece nuovamente una visita, e ci trovò giù per su come la prima volta. Prese una pipa, si mise a sedere e cominciammo secondo il solito a discorrere.

— E dunque, — chiesi alla fine, — non ci dite nulla della lettera? Credo che ormai vi siate rassegnato a comprendere che non c’è modo di vincere il ministro!

— Che gli venga un malanno! Pur troppo è così! Nonostante, feci le nuove investigazioni che il Dupin consigliava, ma, come prevedevo, fu tutto tempo perduto.

— Di quanto diceste che è il compenso offerto? — soggiunse il Dupin.

— È un compenso vistosissimo; non voglio dir quanto preciso, ma dirò solamente che non esiterei a dare di mio una polizza di pagamento di cinquantamila franchi a chiunque potesse farmi avere quella lettera. È un fatto che la cosa è divenuta un giorno più dell’altro importante, e il compenso è stato raddoppiato ora di corto; eppure se anche si triplicasse, io non potrei fare più di quello che ho fatto…

— Ma… sì… — disse il Dupin lentamente, fra le boccate di fumo della sua pipa, — veramente…, credo… G… che non abbiate lavorato… quanto… c’era da lavorare in questa faccenda… Potreste fare ancora dell’altro, non vi pare, eh?

— Come? in qual maniera?

— Ma… (e qui due fumate) potreste… (altre due) chieder consiglio nella faccenda, eh?.. (altre fumate). Vi rammentate la istoria che si raccontava dell’Abernethy?

— No; che l’Abernethy s’impicchi!

— Sicuro, impiccatelo pure, se v’aggrada! Un certo ricco avaro, una volta, pensò di scroccare a questo Abernethy un consiglio medico, e a tale scopo iniziò in una conversazione privata un discorso nel quale narrò al dottore il proprio caso, come quello di una persona qualunque.

— Supporremo, — disse l’avaro, che i sintomi fossero i tali e i tal’altri; che cosa, dottore, gli avreste ordinato di prendere?

— Prendere? — rispose l’Abernethy; — certo di prendere un consiglio…

— Ma, — disse il Prefetto, un po’ scombussolato; — sono prontissimo a prender consiglio e a pagarlo; darei veramente cinquanta mila franchi a chiunque mi aiutasse in questa faccenda.

— E allora, — rispose il Dupin, prendendo da una cassetta un libretto di lettere d’ordine, — potete sottoscrivermi un foglio per tale somma; quando l’avrete sottoscritto, vi darò la lettera.

Ero stupefatto; il Prefetto appariva come del tutto smarrito; per alcuni minuti rimase immobile e senza proferire parola, guardando incredulo il mio amico a bocca aperta e con gli occhi che sembravano venir fuori dall’orbita; poi andò riavendosi in qualche modo, appuntò una penna e dopo essere stato varie volte dubbioso e movendo intorno sguardi incerti, alla fine riempì e sottoscrisse il foglio per cinquanta mila lire e lo diede al Dupin attraverso la tavola. Questi lo osservò accuratamente, lo ripose nel suo portafoglio, aprì uno scrittoio, ne trasse una lettera e la diede al Prefetto. Egli la prese con impeto, e pareva volesse morire dalla gioia; l’aprì con mano tremante e datovi una occhiata, barcollando dall’ansietà, infilò l’uscio e all’ultimo, via senza complimenti dalla stanza e dalla casa, senza aver detto più una parola da quando il Dupin lo aveva pregato di sottoscrivergli la lettera di cambio.

Allorché rimanemmo soli, il mio mito mi diede alcune spiegazioni.

— La polizia parigina, — disse, — sa condursi più che abilmente. I suoi addetti sono perseveranti, ingegnosi, astuti, conoscono tutto ciò che è essenziale nella loro professione. Il G… nel darci i particolari del suo modo d’investigare nel palazzo D… m’inspirava piena fede nella sua opera e fin dove poteva estendersi il suo lavoro.

— Fin dove poteva estendersi il suo lavoro? — Domandai.

— Sì; i mezzi adoperati non furono solamente i migliori del genere ma furono anche adoperati con tutta perfezione. Se la lettera fosse stata nascosta nella cerchia delle loro indagini, quella brava gente l’avrebbe senza dubbio trovata.

Mi contentai di ridere, ma egli pareva che dicesse tutto questo sul serio.

— I mezzi dunque, — continuò, — erano buoni nel loro genere e bene adoperati; il loro difetto consisteva nell’essere inadatti e al caso e all’uomo. Il Prefetto ha un certo numero di espedienti ingegnosissimi che sono per lui una specie di letto di Procuste1, su cui forzatamente accomoda i suoi disegni; e nel caso nostro ha errato sempre o per esser troppo profondo, o per andar poco addentro, e molti scolari avrebbero ragionato meglio di lui. Ne ho conosciuto uno di otto anni, la cui abilità a indovinare nel giuoco del pari o caffo2 gli aveva attirato l’ammirazione di tutti. Questo giuoco è semplice e si fa con delle palline o altri piccoli oggetti e un giuocatore ne tiene in mano un certo numero e domanda se questo numero è pari o caffo; se l’interrogato indovina vince una pallina, se sbaglia ne perde una. Il ragazzo al quale alludo vinceva tutte le palline della scuola. Naturalmente egli si basava su qualche principio di divinazione che consisteva nell’osservare e nel giudicare l’astuzia degli avversari. Per esempio, giuoca con un semplicione che, tenendo la sua mano chiusa, gli domanda: Pari o caffo? Caffo, risponde il nostro scolaro e perde; ma alla seconda volta vince, perché dice fra sé: — Il semplicione aveva messo pari la prima volta, e tutta la sua furberia arriva a fargli metter dispari la seconda; dunque dirò dispari. — Dice dispari e vince. Con altri meno semplice avrebbe ragionato così: — Questo ragazzo ha veduto che la prima volta ho detto caffo; la seconda volta la sua prima idea sarà di cambiare da pari a dispari, come il semplicione, ma poi ci penserà meglio e conchiuderà che sarebbe un cambiamento troppo ingenuo, e quindi alla fine si risolverà a metter pari come prima; dunque dirò pari. — Dice pari, e vince. Sicché questo modo di ragionare dello scolaro, che i suoi compagni chiamano fortunato, che cos’è in ultima analisi?

— Non è altro, — risposi, — che l’immedesimarsi dell’intelletto ragionatore con quello dell’avversario.

— Appunto, — disse il Dupin. — Domandando al ragazzo come otteneva egli questa perfetta immedesimazione che gli procacciava la vittoria, ne ebbi la risposta seguente: — Quando desidero di sapere quanto uno è intelligente o stupido, buono o cattivo, o quali pensieri gli passano per la mente in quel momento, cerco, con ogni cura e per quanto sia possibile, di far sì che l’espressione del mio viso imiti l’espressione del suo, ed allora aspetto per vedere quali pensieri o quali sentimenti nascono dalla mia mente e dal mio cuore come se dovessero accordarsi e corrispondere alla espressione. — Questa risposta supera di gran lunga la così detta profondità che si suole attribuire al La Rochefoucault, al La Bruyère3, al Machiavelli e al Campanella.

— E l’immedesimazione, — osservai, — dell’intelletto ragionatore con quello dell’avversario dipende, se ho capito bene, dalla giustezza colla quale l’intelletto dell’avversario è valutato.

— Per la sua importanza pratica dipende proprio da codesto, — rispose il Dupin; — e se il Prefetto e i suoi s’ingannano così spesso, ne è prima causa questa immedesimazione, e poi il valutar male, o il non valutar punto l’intelletto di coloro col quale essi hanno che fare. Considerano soltanto le loro proprie ingegnose idee: e se cercano qualche cosa di nascosto, pensano ai metodi che loro stessi avrebbero usato per nasconderla; la loro ingegnosità somiglia fedelmente all’ingegnosità della folla, e in questo consiste la maggior loro giustificazione; ma quando la finezza del malfattore è diversa, ha un carattere differente, allora, senz’altro, il malfattore li vince; e se egli è superiore a loro li vince sempre, se è inferiore li vince molto spesso. Non mutano mai i metodi delle loro indagini; al più al più se si tratta di qualche cosa di eccezionale, o di qualche ricompensa straordinaria, allargano i vecchi metodi pratici, e li rendono eccessivi, ma i principii rimangono sempre gli stessi. Che cosa è stato variato, per esempio, nel modo di esercitare la propria azione nel caso del D…? Che cosa è tutto questo perforare, e provare, e scuotere, e scrutare col microscopio, e dividere la superficie del palazzo in centimetri quadrati numerati? non è forse un aggrandire l’applicazione di uno o più principii di ricerca, che sono basati sopra una o più idee relative all’ingegnosità umana, e in cui il Prefetto si è assuefatto nella lunga carriera del suo ufficio?

Non vedete che per lui è un fatto indiscutibile che tutti gli uomini per nascondere una lettera, se non si servono proprio di un buco fatto col succhiello nella gamba di una seggiola, ricorrono per lo meno a qualche buco eccezionale, a qualche angolo escogitato seguendo quel medesimo ordine d’idee che spingerebbe un uomo a nasconderla nel foro fatto col succhiello nella gamba di una sedia?

Potete anche osservare che a tali particolari nascondigli si ricorre solamente nelle solite occasioni, e vi ricorrono solamente le persone di comune levatura, perché, in tutti i casi di nascondiglio, tale collocazione dell’oggetto nascosto, una collocazione così particolarissima, è di primo acchito indovinabile e indovinata; di modo che lo scoprirla non dipende punto dall’acutezza della mente, ma in tutto dalla cura, dalla pazienza, dalla volontà degli investigatori; e quando il caso è importante, o la ricompensa è notevole, ciò che torna lo stesso agli occhi della polizia, tutte queste loro virtù non riescono a nulla. Vi sarà facile ora di comprendere quello che intendevo dire affermando che, se la lettera trafugata fosse stata nascosta in un qualunque modo compreso nei limiti delle indagini del Prefetto, la lettera si sarebbe indubitatamente trovata. Questo ufficiale tuttavia è stato del tutto canzonato, e la causa prima della sua disfatta si deve ricercare nella sua opinione che il Ministro sia uno stolto, per essersi acquistato fama di poeta. Tutti gli stolti sono poeti; così la pensa il Prefetto ed erra unicamente nel collocare male il termine medio e concluderne che tutti i poeti sono stolti.

— Ma è proprio lui il poeta? —domandai; — so che sono due fratelli e che ambedue hanno un nome nelle lettere. Il Ministro credo che abbia scritto dottamente di calcolo differenziale; è il matematico, non il poeta.

— Siete in errore; lo conosco bene, è matematico e poeta. Come poeta e matematico egli ragiona bene; come matematico soltanto, non ragionerebbe punto, e sarebbe rimasto alla mercé del Prefetto.

— Coteste opinioni, — dissi, —non possono che recar meraviglia, in quanto che sono contradette dalla voce di tutti; ne potete disprezzare idee ben maturate nei secoli. La ragione matematica è stata sempre accettata come la ragione per eccellenza.

Vi è da scommettere, — ribatté il Dupin, citando lo Chamfort, —che ogni idea pubblica, ogni convenzione accettata, è una sciocchezza, perché in essa si è trovata d’accordo la maggioranza. I matematici, ve lo ammetto, hanno fatto quanto è stato in loro per divulgare l’errore popolare a cui accennate, e che, nonostante l’esser divulgato come verità, è pur sempre un errore. Con arte degna di miglior causa, per esempio, hanno affermato che il vocabolo analisi sia da riferirsi all’algebra, e presso i francesi ebbe la sua prima origine questo particolare inganno; ma se un vocabolo è di alcuna importanza, se le parole traggono qualche significato dalla loro applicabilità, allora analisi vuol dire algebra, all’incirca come nel latino ambitus significa ambizione, religio religione, o homines honesti, un numero di persone onorevoli.

— Mi par di vedere, — dissi, —che avrete una polemica con qualcuno degli algebristi di Parigi; ma continuate.

— Io nego la forza e quindi il valore di quella ragione che è coltivata con qualunque modo speciale che non sia la logica astratta; nego particolarmente la ragione che proviene dallo studio delle matematiche. Le matematiche sono la scienza della forma e della quantità, ed il ragionamento matematico non è altro che la logica applicata all’osservazione della forma e della quantità. Il grande errore sta nel supporre che anche le verità di ciò che si chiama algebra pura sieno verità astratte o generali; e questo errore è così smisurato che sono pieno di meraviglia al vederlo accolto universalmente. Gli assiomi matematici non sono assiomi di verità generale; ciò che è vero in un rapporto di forma e di quantità, spesso, ad esempio, è grossolanamente falso in rapporto alla morale; in questa scienza frequentissimamente è falso che la somma delle frazioni sia eguale all’intero; ed anche in chimica l’assioma non corrisponde. Lo stesso segue quando si voglia giudicare di una forza motrice; poiché due motori di una data forza, uno aggiungendosi all’altro, non hanno di certo una forza eguale alla somma delle loro forze, considerate separatamente; e vi sono altre numerose verità matematiche, che sono verità nei limiti di rapporto. Eppure il matematico, per consuetudine, argomenta secondo le sue verità finite, come se fossero di un’assoluta generale applicabilità, e come veramente la parola fa credere che esse sieno. Il Bryant, nella sua dottissima Mitologia, accenna a una sorgente simile di errori quando dice che, sebbene nessuno presti fede alle favole pagane, accade invece che noi stessi ci dimentichiamo spessissimo di non crederci, e deduciamo da esse come da verità riconosciute. Gli algebristi, che sono pagani loro stessi e credono alle favole pagane, ne fanno deduzioni, non tanto per mancanza di memoria, quanto per un incredibile disordine del loro cervello; insomma io non ho mai trovo un matematico puro che possa aver fede in qualche cosa fuori delle equazioni e delle radici; o uno che nascostamente non creda come ad articolo di fede che x2 + px sia in modo assoluto ed incondizionato eguale a q. Dite a uno di questi signori, se avete gusto di fare una prova, che voi credete possa esservi il caso in cui x2+ px non sia interamente eguale a q; ma quando gli avete fatto comprendere qual è proprio il vostro pensiero, badate ad allontanarvi sollecitamente da lui quanto occorre, poiché, di certo, egli cercherà di buttarvi per terra.

Voglio affermare, — continuò il Dupin, mentre io rideva alle sue ultime tirate, — che se il Ministro fosse stato soltanto un matematico, il Prefetto non avrebbe avuto necessità di darmi questa cambiale. In quanto a me lo avevo conosciuto per un matematico e per un poeta, e mi regolai secondo la sua capacità e le condizioni in cui si trovava. Sapevo che era uomo di corte ed intrigante ardito, e considerai che un uomo tale non poteva ignorare i passi della polizia; non poteva non aver preveduto, come i fatti stessi poi hanno provato, gli agguati a cui sarebbe stato esposto. Deve aver preveduto, riflettevo ancora, le perquisizioni segrete nel suo palazzo; e a me le sue frequenti assenze notturne, che al Prefetto facevano comodo nella sua impresa e gli parevano aiuti sicuri al buon esito, sembravano, invece, astuzie per dare opportunità alle ricerche della polizia e così confermare più presto, come avvenne di fatti, il G… nella sua convinzione che la lettera non fosse in casa. Ero persuaso anche che tutto il complesso d’idee di cui ho avuto cura fin’ora di darvi i particolari, concernenti i principi immutabili del lavoro della polizia nelle ricerche di cose nascoste; ero persuaso, dico, che tutte queste idee dovevano condurlo in modo assoluto a disprezzare i soliti nascondigli. Egli non può essere tanto ingenuo, pensavo, da non comprendere che i più difficili e remoti recessi del suo palazzo sono aperti come qualsiasi altra sua stanza agli occhi, agli scandagli, a’ succhielli, a’ miscoscopî del Prefetto. Vidi, in fine, che tranne il caso di aver deliberatamente seguito nella scelta della via una sua particolare propensione, egli avrebbe dovuto, senza dubbio, sentirsi spinto verso quella della semplicità: rammenterete forse ancora le risa sgangherate del Prefetto, quando la prima volta che fu qui domandai se non era per avventura possibile che il mistero gli desse tanto da pensare giusto appunto per la grande evidenza che aveva in sé stesso.

— Sì, — dissi, — me ne rammento benissimo; credetti proprio che dal ridere gli prendessero le convulsioni…

— Il mondo materiale, — proseguì il Dupin, — abbonda di analogie precise con quello immateriale; e ciò ha dato qualche colore di verità al principio rettorico che una metafora o una similitudine può rinforzare un argomento come render più bella una descrizione. Il principio della forza d’inerzia, per esempio, sembra lo stesso nella fisica e nella metafisica; in fisica un corpo grosso vien messo in moto con difficoltà maggiore di un corpo piccolo, e la quantità di moto è in proporzione a questa difficoltà; in metafisica gli intelletti più vasti e ad un tempo più forti, più costanti, e più vari nel loro movimento che non quelli di grado inferiore, sono pure gli intelletti che si muovono con minor facilità, che sono i più impacciati

e dubbiosi ne’ primi passi del loro cammino. E poi, avete mai notato nelle strade quali sono i cartelli sopra le porte delle botteghe, che attirano di più l’attenzione?

— Non ci ho mai pensato, — risposi.

— Vi è un giuoco d’indovinelli, — riprese, che si fa sopra una carta geografica. Uno de’ giuocatori vuole che un altro si provi a indovinare una data parola, un nome di città, di fiume, di stato, d’impero, insomma, una parola qualunque nella varia e confusa superficie della carta. Un novizio del giuoco, per il solito, cerca di confondere gli altri, proponendo de’ nomi scritti in caratteri piccolissimi; ma quelli che sono pratici, invece, scelgono le parole in caratteri grandi e che vanno da una parte all’altra della carta. Queste, come le grandi lettere dei cartelli e degli avvisi nelle strade, sfuggono all’attenzione, appunto perché sono troppo evidenti; ed in ciò la disattenzione fisica è precisamente come quella morale di colui che non si cura de’ soliti discorsi, delle solite trivialità, di ciò che è chiaro e risaputo di per sé stesso. Giusto qui, sembra, che l’intelligenza del Prefetto si sia trovata un po’ sopra o un po’ sotto; non credette mai probabile o possibile che il Ministro collocasse la lettera proprio sotto il naso di tutti, come per evitare che qualsiasi persona potesse discernerla. Ma io più riflettevo sull’ardita, bella e fine ingegnosità del D…, che doveva aver sempre il documento sotto mano per usarlo al suo scopo, e che, da quando ormai gli si era manifestato evidente dall’opera del Prefetto, ben sapeva che il documento non poteva essere ben nascosto nella cerchia di ciò che quegli poteva indagare; quanto più, ripeto, riflettevo a tutto questo, tanto più mi convincevo che il Ministro si era valso con larghezza e con accortezza dell’espediente di non tentare nemmeno di nasconder la lettera.

— Pieno di queste idee, mi misi un paio di occhiali verdi, e una bella mattina, come per caso, fui al palazzo del Ministro. Trovai il D… in casa, che, secondo il solito, rappresentava la parte del fannullone, sbadigliando, gingillandosi e pretendendo di esser finito dalla noia; egli che è forse veramente l’uomo più energico che oggi esista, purché sia solo e nessuno lo veda…

— Per non esser da meno di lui, mi dolsi della mia debolezza d’occhi e della necessità di portare gli occhiali; ma di sotto a essi cautamente e minutamente scrutai dappertutto, mentre in apparenza ero intento soltanto alla conversazione col mio ospite.

— Feci particolare attenzione ad una scrivania, vicino alla quale egli era seduto e su cui confusamente giacevano varie lettere e altri fogli, alcuni libri e uno o due strumenti di musica; però, dopo lunga ed accurata osservazione, non vidi niente che potesse darmi alcun indizio speciale.

— Finalmente i miei occhi, guardando attorno nella stanza, si fermarono sopra un porta carte di nessun conto, fatto di cartone traforato, che per un nastro turchino, piuttosto sudicio, era sospeso a un chiodo di ottone proprio sopra il caminetto a metà della gola. Aveva tre o quattro tasche, dove non erano che cinque o sei biglietti di visita e una sola lettera, molto sgualcita e macchiata, quasi strappata in due parti, come se lì per lì si fosse avuta l’intenzione di strapparla del tutto, quale cosa di nessuna importanza, e poi cambiato d’idea.

— Era stata chiusa con un gran sigillo nero colla cifra del D… molto vistosa, indirizzata al Ministro stesso con un caratterino da donna, e buttata trascuratamente ed anzi, secondo sembrava, con disprezzo, in una delle tasche superiori del portacarte.

— Appena ebbi data un’occhiata a questa lettera, conchiusi che era appunto quella che cercavo. La sua apparenza, eccetto nella forma che era proprio simile, riusciva del tutto diversa dalla lettera descrittaci minutamente dal Prefetto; qui il sigillo grande e nero, colla cifra del D…, nell’altra piccolo e rosso, colle armi ducali della famiglia S…; qui l’indirizzo al Ministro in caratterino di donna, nell’altra la soprascritta a un certo real personaggio notevolmente ardita e risoluta. Ma, poi, queste differenze così profonde, il sudiciume e la carta sciupata e strappata, in contrasto alle vere consuetudini metodiche del D…, dimostravano chiaro lo scopo di dar l’idea a chi vedesse che il documento non aveva alcuna importanza; e tutto ciò unito alla maniera quasi spavalda con cui il documento stesso era là sotto gli occhi di chiunque, era in così perfetto accordo con le conchiusioni alle quali ero già arrivato prima, che ogni cosa, dico, confortò pienamente il sospetto di chi era venuto col pensiero di sospettare.

— Protrassi la mia visita quanto più fu possibile, e mentre sostenevo col Ministro una discussione animata intorno a un argomento che sapevo bene non mancar mai di parergli importante ed essergli d’eccitamento, non distolsi mai in realtà la mia attenzione dalla lettera, e scrutando m’imprimevo nella memoria il suo aspetto esterno e il modo con cui era stata accomodata nel portacarte, finché non giunsi a una scoperta che tolse ogni dubbio grossolano che mi poteva restare ancora. Osservai che la carta nelle piegature era sfilacciata più che non dovesse essere; pareva rotta come segue piegando una carta grave e spianandola poi con la stecca, una carta che si è arrovesciata sulle piegature di prima. Tutto questo bastava per darmi l’evidenza che la lettera era stata rivoltata come un guanto, risigillata e fattovi un nuovo indirizzo. Augurato il buon giorno al Ministro, mi accomiatai subito, dimenticando la mia tabacchiera d’oro sulla scrivania.

— La mattina dopo tornai a riprenderla e ricominciammo calorosamente la conversazione del giorno prima; mentre si era dietro a discutere sentimmo una forte detonazione come di un colpo di pistola che pareva venisse proprio di sotto le finestre del palazzo, e ne seguirono urli e grida della folla spaventata. Il D… corse a una finestra, l’aprì, e guardò fuori; in quello stesso tempo io andai difilato al portacarte, presi la lettera, me la misi in tasca e la sostituii con un facsimile in quanto all’esterno, che avevo accuratamente preparato a casa, imitando la cifra del D… con un sigillo fatto alla lesta con midolla di pane.

— Gli urli nella strada erano stati causati dall’atto pazzesco di un uomo che aveva sparato un fucile in mezzo a una folla di donne e di bambini; ma essendo risultato che il fucile non era carico a palla, il pazzerello o ubbriacone che fosse, se la poté svignare senz’altro. Quando esso fu andato via, il D… lasciò la finestra, dove io l’avevo seguito immediatamente, dopo essermi impadronito dell’oggetto desiderato; e trascorsi pochi minuti gli feci i miei complimenti. Il creduto pazzerello era un uomo al mio servizio.

— Ma che scopo avevate — domandai, — sostituendo la lettera con un facsimile? Non sarebbe stato meglio fin dalla prima visita, prenderla addirittura ed andarsene?

— Il D… — rispose il Dupin, —è un uomo violento, e un uomo di stocco; né mancano anche nel suo palazzo servitori che gli sono devoti; se avessi fatto il passo insensato che dite, non avrei più lasciata da vivo la ministerial presenza, e il buon popolo di Parigi non avrebbe mai saputo più nulla di me. Del rimanente oltre tutto questo c’era uno scopo che si riconnetteva alle mie idee politiche che voi conoscete, e mi faceva agire come un partigiano della donna che noi sappiamo. Per diciotto mesi il Ministro l’ha tenuta in suo potere; ella ora tiene lui che ignora di non aver più la lettera e proseguendo a condursi come se l’avesse sempre, coopererà egli stesso subito infallantemente alla propria distruzione politica, e la caduta sarà sollecita e ridicola. Si dice bene del facilis descensus Averno, ma in tutti i generi del salire e del scendere, come il Catalani disse del canto, è più facile andare in su che venire in giù. Nel caso presente non ho alcuna simpatia, neppur pietà, per colui che sta per discendere; egli è quel monstrum horrendum, un uomo di genio senza principî; confesso, però, che mi piacerebbe moltissimo di conoscere il carattere preciso de’ suoi pensieri, quando, vinto da colei che il Prefetto chiama un certo personaggio, sarà costretto ad aprire la lettera che lasciai per lui nel portacarte.

— Come? vi avete messo qualche cosa di particolare?

— Mah! non mi è sembrato giusto di non scriver nulla dentro: poteva parere un indulto… Il D…, una volta, a Venezia, mi fece un brutto tiro, ed io gli dissi sorridendo che me ne sarei rammentato. Così sapendo che avrebbe provato qualche curiosità intorno alla persona che l’aveva sorpassato in astuzia, pensai che sarebbe stato un peccato di non dargliene segno, e poiché egli conosce bene la mia scrittura, mi contentai di copiare nel mezzo del foglio bianco queste parole:

Così orrendo disegno
Se non del fiero Atreo, ben di Tieste è degno.

Esse si trovano nelll’Atreo del Crébillon.

Note

1 Procuste era il soprannome del brigante greco Damaste. Possedeva due letti, uno molto corto e uno molto lungo, su cui torturava le sue vittime. La locuzione “letto di Procuste” indica un modello in cui si vuol ingabbiare pensieri e comportamenti. Ecco perché Dupin dice “su cui forzatamente accomoda i suoi disegni”. Ndr.

2 Il gioco del pari e dispari. Caffo proviene dal latino caput, capo, per indicare anche il primo numero, cioè 1, quindi dispari. Ndr.

3 Nel testo Poe ha scritto il nome di La Bruyère con la grafia errata, ma nella traduzione è riportata quella corretta. Nel testo originale compare infatti “La Bougive”.

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Scrivo testi per il web e correggo bozze di manoscritti. Scrivo anche sul mio blog «Penna blu» e sull’aerosito ufficiale di F.T. Marinetti.

2 Commenti

  1. Dupin non è mai stato tra i miei preferiti,probabilmente per la prolissità degli altri due racconti (preferisco però il caso di Marie Roget ai delitti della Rue Morgue),ma questo lo gradisco,molto sottile…D’altronde,siamo agli albori della narrativa poliziesca!

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