Eleonora

Dal volume Novelle straordinarie, 1921

Il racconto “Eleonora” è l’unica storia d’amore scritta da Poe, sebbene l’amore sia un tema ricorrente nei suoi racconti e nelle sue poesie.

Tuttavia, quando apparve pubblicato la prima volta su The Gift for 1842 – una pubblicazione annuale che di solito usciva all’inizio dell’autunno precedente all’anno nel titolo (in questo caso nell’autunno 1841), per sfruttare il redditizio mercato delle festività – il racconto presentava il sottotitolo “A Fable”.

“Eleonora” è una storia in parte autobiografica: il narratore racconta di vivere assieme alla “figlia unica dell’unica sorella” di sua madre da tempo scomparsa. Poe visse con la cugina Virginia e sua madre, che era però sorella del padre.

La citazione di Ramon Llul (1232–1316), anglicizzato in Raymond Lully, comparve soltanto a partire dall’edizione nel «Broadway Journal» del 24 maggio 1845.

La stessa citazione è presente nell’opera Notre-Dame de Paris di Victor Hugo, uscita a Parigi il 16 marzo 1831, la cui traduzione fu pubblicata a Filadelfia nel 1833 (tradotta da Frederic Shoberl), romanzo che Poe aveva letto1.

Il nome di Raymond Lully compare anche in “Fifty Suggestions” del numero di maggio-giugno 1849 del «Graham’s Magazine».

La presente traduzione

Questa versione è presa dal volume Novelle straordinarie (STEN Editrice, 1921), una probabile nuova edizione del volume uscito nel 1896 a cura di Ernesto Ragazzoni e Federico Garrone.

Eleonora

Sub conservatione formae specificae salva anima.
Raymond Lully.

Io discendo da una razza che una vigorosa immaginazione e l’ardor delle passioni hanno reso celebre. Gli uomini m’han chiamato pazzo; ma la scienza ancora non ci ha appreso se la follia sia o non sia il sublime dell’intelligenza, se tutto ciò che forma la gloria, tutto ciò che forma il talento non provenga da una malattia del pensiero, da uno stato dello spirito esaltato a discapito delle facoltà generali. Coloro che sognano stando desti, hanno coscienza di mille cose le quali sfuggono a coloro che non sognano se non dormendo. Nelle loro nebbiose visioni, essi scorgono qualche sprazzo dell’eternità e fremono, ridestandosi, pensando che per un istante han sostato sul margine del gran segreto.

Essi afferrano a brani qualche particella di conoscenza del Bene ed anche più di quella del Male. Senza bussola e senza timone penetrano nell’oceano immenso della luce ineffabile e quasi ad imitar gli avventurieri del geografo nubiano aggressi sunt Mare Tenebrarum quid in eo essent exploraturi.2

Noi dunque diremo che io sono pazzo. Almeno riconosco che nella mia esistenza spirituale si avvertono due condizioni ben distinte quella ragionevole, incontestabilmente lucida, che riguarda il ricordo degli avvenimento svoltisi durante la prima epoca della mia vita, e quella fatta di dubbio e di tenebre che si riferisce al presente e al ricordo di quanto ha rapporto con la seconda grande epoca della mia esistenza. Credete dunque pure ciò che io dirò del mio primo periodo; ma non prestate che quel tanto di fede che vi sembrerà giusto a quanto io riferirò come avvenuto nel tempo posteriore; anzi dubitatene completamente; o se non vi riescirà a dubitare, sappiate esser l’Edipo di questo enigma.

Colei che io amava in gioventù, e di cui ora traccio tranquillamente e distintamente la ricordanza, era la figlia unica dell’unica sorella di mia madre, morta già da molto tempo. Mia cugina si chiamava Eleonora. Noi avevamo sempre abitato insieme, sotto un sole tropicale, nella valle del Prato di Diaspro3. Mai un passo senza che fosse guidato era potuto penetrare in quella valle; poiché essa si stendeva lontano lontano, traverso a una catena di montagne gigantesche che si elevavano scoscese tutte all’intorno, rinchiudendo alla luce del sole i suoi più deliziosi cantoni. Nessuna strada girava nelle vicinanze, e per arrivare al nostro romitaggio, bisognava aprirsi il passaggio fra le fronde di migliaia di alberi selvaggi e pestar la gloria di migliaia di fiori profumati. Così noi, io, mia cugina e sua madre, vivevamo completamente isolati, non conoscendo nel mondo nulla, all’infuori di questa vallata.

Dall’alto delle cupe regioni poste al di là delle montagne, all’estremità superiore di quella nostra contrada così ben chiusa, scendeva un ruscello stretto e profondo, più brillante di qualunque altra cosa che non fosse però lo sguardo di Eleonora: e serpeggiando qua e là per numerosi meandri, sboccava alla fine in una gora tenebrosa in mezzo a montagne ancora più cupe di quelle donde aveva tratto origine. Noi gli avevamo messo il nome di ruscello del Silenzio; imperocchè pareva che su quel corso d’acqua imperasse come un’influenza pacificatrice. Nessun mormorio si alzava dal suo letto, e andava rigirando ovunque così dolcemente, che i granelli di sabbia che, simiglianti a perluzze, noi amavamo di contemplare in fondo alle sue acque, non si muovevano affatto, ma riposavano in una immobile felicità, ognuno al suo antico posto primitivo, brillante sempre dello stesso eterno splendore.

Le rive del ruscello e di altri piccoli meravigliosi ruscelletti che per vie differenti venivano a fondersi nel suo seno; tutto lo spazio che si stendeva dai margini fino al fondo ciottoloso che appariva traverso alle profondità trasparenti; tutta dico, tutta la superficie della vallata, dal ruscello fino alle montagne che la limitavano, tutta era tappezzata d’un’erba verde pallida, fitta, corta, perfettamente uguale, profumata di vainiglia e cosparsa in tutta la sua estensione di ranuncoli gialli, di margherite bianche, di violette porporine e d’asfodeli di color rubino, in maniera che tutta quella beltà meravigliosa parlava ai nostri cuori in accenti vibrati dell’amore e della gloria di Dio.

E poi qua e là, di quel prato, si lanciavano in boschetti, come visioni di un sogno, alberi fantastici dai tronchi alti e sottili, che non arrivavano a tenersi dritti, ma si piegavano graziosamente per il verso della luce che a mezzogiorno scendeva a visitare il centro della vallata. La loro scorza era macchiettata vivamente e alternatamente dello splendor dell’ebano e dell’argento, ed era più levigata di qualunque altra cosa che però non fosse la gota di Eleonora; e tanto che, se non fosse stato il verde brillante delle foglie che coronavano le loro sommità di lunghe striscie tremolanti allo scherzare del zeffiro, si sarebbero potuti prendere per serpenti mostruosi di Siria, in atto di rendere omaggio al Sole, loro sovrano.

Per quindici anni io ed Eleonora, le mani intrecciate insieme, siamo andati errando traverso a questa valle prima che l’amore entrasse nei nostri cuori. Fu una sera, alla fine del terzo lustro della sua vita e del quarto della mia, che noi ci trovavamo seduti, incatenati in un vicendevole abbraccio, sotto quegli alberi serpentini e contemplavamo la nostra immagine riflessa nelle acque del ruscello. Durante la fine di quella deliziosa giornata, noi non pronunciammo una sola parola ed anche, la mattina stessa, le nostre parole erano state rade e tremanti. Avevamo tratto il dio Eros da quelle acque ed ora sentivamo che egli aveva riacceso in noi le anime ardenti dei nostri antenati. Le passioni che per lunghi secoli avevano segnalato la nostra razza si precipitarono in folla assieme con quel turbine di fantasie che l’avevano resa celebre, e tutte insieme vennero a soffiare, sulla vallata del Prato di Diaspro, una beatitudine delirante. E tutte le cose ebbero un cambiamento. Fiori strani, brillanti, stellati sbocciarono sugli alberi dove nessun fiore era fin’allora spuntato. Le gradazioni di quel tappeto verde si fecero più intense: a una a una scomparvero le bianche margheritine, e al posto d’ognuna di esse spuntarono dieci asfodeli d’un rosso di rubino. E la vita scoppiò dovunque sui nostri sentieri: e vedemmo il gran fenicottero, che noi ancora non conoscevamo, con tutti gli altri uccelli dai colori accesi, adornarsi dinanzi a noi delle sue piume scarlatte; e i pesci d’oro e d’argento popolare il ruscello; e dal seno di questo uscire poco a poco un mormorio che si cambiava lentamente in una cullante armonia, più divina di quella data dall’arpa d’Eolo, e più dolce dì qualunque altra cosa che però non fosse la voce d’Eleonora. E allora una immensa, nuvola, che noi per lungo tempo avevamo spiato nelle regioni d’Espero4, ne emerse tutta gocciolante di porpora e d’oro, e venne a stendersi sopra di noi, poi, giorno per giorno, cominciò a discendere in basso, sempre più in basso, fino a che i suoi margini vennero a posarsi sui culmini delle montagne, trasformando in magnificenza il loro tenebrore e rinchiudendoci, come per sempre, in una magica prigione di splendore e di gloria.

La bellezza d’Eleonora era quella dei Serafini; era inoltre una fanciulla senza artifizi, innocente come la breve vita da lei vissuta in mezzo ai fiori.

Nessuna finzione nascondeva il fervor dell’amore che animava il suo cuore, ed ella ne scrutava in me i più intimi movimenti, mentre insieme andavamo errando nella valle del Prato di Diaspro, discorrendo di quei potenti cambiamenti che in essa si erano così di recente manifestati.

Finalmente avendomi un giorno parlato, con le lagrime agli occhi, della crudele trasformazione finale che attende la povera umanità, ella non pensò più da allora che a questo doloroso soggetto, mischiandolo in tutte le nostre conversazioni come nelle canzoni del bardo di Schiraz5 tornano sempre le stesse immagini ad ogni importante variazione della frase.

Ella aveva veduto il dito della Morte sopra al suo seno, e come la farfalla, ella non era diventata bella che per morire ma per lei tutti i terrori della tomba eran racchiusi in un unico pensiero che una sera mi rivelò, mentre sul crepuscolo noi eravamo seduti sul margine del fiumicello del Silenzio. Ella si addolorava che dopo essere stata sepolta nella valle del Prato di Diaspro, io abbandonerei per sempre quel felice romitaggio per trasportare il mio amore, ora suo tanto appassionatamente, verso qualche altra fanciulla del mondo esterno e volgare.

E ogni momento io mi gettavo ai piedi d’Eleonora e le proponevo di giurare dinanzi a lei e a Dio di non contrarre mai matrimonio con nessuna figliuola di questa terra, che così non sarei in alcuna maniera infedele al suo ricordo né alla rimembranza della fervente affezione di cui ella mi aveva ricolmato. Ed invocai l’onnipotente Regolatore dell’universo6 a testimonio della pia solennità del mio voto. E la maledizione che io dal Cielo e da lei, una santa del Paradiso7, chiamavo sul mio capo se mai diventassi spergiuro, implicava un castigo d’un così prodigioso orrore, che ora mi é perfino impossibile di trascriverlo sulla carta.

E al mio dire gli occhi brillanti d’Eleonora rifulsero d’una luce più viva e sospirò come se il suo petto si fosse liberato d’un peso mortale; tremò e pianse amaramente, ma accettò il mio giuramento, imperocché che cosa ella era se non una bambina?… Ed esso le rese più dolce il suo letto di morte. Pochi giorni dopo, spegnendosi placidamente, mi diceva che ella, in compenso di quanto avevo fatto per il riposo dell’anima sua, spirito benefico e tutelare, veglierebbe dopo morte su di me, anzi ove gli eterni destini glielo avessero permesso, ella sarebbe apparsa a’ miei occhi durante le ore della notte; che però, se ciò non fosse fra i privilegi degli eletti, ben saprebbe almeno darmi frequenti indizî della sua presenza, sospirando sul mio capo assieme con la brezza vespertina, o riempiendo l’aria da me respirata del profumo preso dall’incensiere degli angeli. E con quelle parole sulle labbra ella spirò la sua vita innocente, segnando così la fine della prima epoca della vita mia.

Fino a questo punto io ho parlato fedelmente. Ma quando passo questo punto, sulla via del tempo segnato dalla morte della mia adorata, e mi avanzo nel secondo periodo della mia esistenza, sento che una nuvola s’addensa sul mio cervello ed io stesso dubito della perfetta sanità della mia memoria.

Ma lasciatemi seguitare. Gli anni scorsero pesantemente uno a uno ed io continuai a dimorare nella vallata del Prato di Diaspro. Ma un secondo cangiamento era avvenuto in tutte quante le cose. I fiori stellati erano scomparsi dal tronco degli alberi e non vi ricomparvero mai più. Le tinte verdi della pianura s’illanguidirono; uno a uno s’avvizzirono gli asfodeli rossi come i rubini, e al loro posto germogliarono a diecine le tristi violette, simili ad occhi che penosamente si socchiudevano ed eran sempre pieni di lagrime di rugiada. E la Vita si allontanava dai nostri sentieri; imperocchè il gran fenicottero non faceva più pompa dinanzi a noi delle sue piume scarlatte, ma se ne volava invece tristemente dalla vallata verso le montagne con tutto lo stuolo gaio degli uccelli dai colori fiammeggianti che avevano prima accompagnato la sua venuta. Ed i pesci d’oro e d’argento se ne fuggirono nuotando verso la gora, verso l’estremità inferiore di quella nostra contrada e non abbellirono mai più con la loro presenza il delizioso ruscello. E quella musica carezzevole che era più dolce dell’arpa d’Eolo e qualunque altra cosa che non fosse la voce di Eleonora si spense a poco a poco in un mormorìo lento, fino a che il ruscello tornò interamente alla solennità del suo primitivo silenzio. Poi finalmente la densa nube si alzò e lasciando le creste dei monti nelle loro tenebre, tornò alle regioni d’Espero, portando lungi dalla valle del Prato di Diaspro lo spettacolo infinto della sua magnifica porpora.

Intanto Eleonora non aveva dimenticato le sue promesse; ed io sentivo a me vicino il dondolamento degli angelici incensieri e folate di profumo celestiale soffiavano sempre traverso alla vallata; e nelle ore di solitudine, quando il mio cuore batteva gravemente, i venti arrivavano sulla mia fronte carichi di dolci sospiri; e un mormorio confuso riempiva spesso l’aria della notte; ed una volta, oh! sì, una volta soltanto! dal mio sonno, simile a quello della morte, fui svegliato da due labbra immateriali che lievemente, come una carezza, sfioravano le mie.

Ma malgrado tutto ciò il vuoto del mio cuore non si riempiva mai. Anelavo ardentemente l’amore che lo aveva già riempito fino all’orlo.

Col passare del tempo la vallata piena dei ricordi d’Eleonora mi fu cagione d’afflizione, ed io la lasciai per sempre in cambio delle vanità e dei tumultuosi trionfi mondani.

Divisore

Mi ritrovai in una città straniera, dove tutte le cose eran fatte per cancellarmi dalla memoria i dolci sogni che per tanto tempo mi avevano allietato nella valle del Prato di Diaspro. Le cerimonie e il lusso d’una corte imponente, il delirante tintinnio delle armi e la raggiante bellezza delle donne, tutto inebbriava e sconvolgeva il mio cervello. Ma fino allora la mia anima era rimasta fedele ai suoi giuramenti, e durante le ore silenziose della notte Eleonora mi dava sempre indizi della sua presenza.

Ad un tratto queste manifestazioni cessarono; il mondo divenne nero dinanzi agli occhi miei; ed io restai spaventato dei pensieri ardenti che si erano impadroniti di me e delle terribili tentazioni che mi assediavano; imperocchè di lontano lontano, da so quale sconosciuta regione, era venuta alla corte reale, dove io mi trovava, una giovine la cui bellezza conquistò ad un tratto il mio cuore d’apostata; ed io mi prosternai dinanzi al suo altare senza la più piccola resistenza e con la più ardente e la più abbietta idolatria d’amore. Che cos’era infatti la mia passione per la giovinetta della vallata, in confronto del fervore, del delirio e dell’estasi d’adorazione inebbriante con cui io scioglieva tutta l’anima mia, nelle lacrime che versavo ai piedi dell’eterea Ermengarda? Oh! era splendida la serafica Ermengarda! e quest’idea non lasciava in me il posto ad alcun’altra. Oh! era divina l’angelica Ermengarda! e quando io immergeva il mio sguardo nella profondità dei suoi occhi pregni di ricordanze, io non desideravo che essi, non desideravo che lei.

La sposai e non temetti la maledizione che avevo invocata, né la povera morta apparve a rimproverarmi. Una volta, una sola volta, nel silenzio della notte, i dolci sospiri che tanto m’avevano inebbriato, passarono ancora traverso alle tende della mia finestra, e si modularono in una nota e deliziosa voce che mi diceva:

«Dormi, dormi in pace! Lo spirito d’amore è il sovrano che giudica e governa; tu che nel cuore appassionato accogliesti colei che porta il nome di Ermengarda, tu, per ragioni che in cielo ti saranno rivelate, sei sciolto dal giuramento fatto ad Eleonora.»

Note

1 “Sotto la conservazione della forma specifica, l’anima è intatta”, Notre-Dame de Paris, Edizione CDE su licenza Mondadori. Traduzione di Gabriella Leto, Cap. VI, p. 213.

2 La frase latina riportata da Poe è nel volume Geographia Nubiensis di Muhammad al-Idrisi (ca. 1099-1165), geografo e viaggiatore arabo. La Nubia era una regione dell’Africa nord-orientale. L’opera fu pubblicata in latino nel 1619. La frase reale era qui sunt aggressi Mare Tenebrarum, quid in eo esset exploraturi.

3 Nell’originale “Valley of Many-Coloured Grass”, valle dell’erba dai mille colori.

4 Le regioni dell’Occidente. Espero è il nome di Venere, che appare al tramonto.

5 Shiraz è una città dell’Iran.

6 Dio.

7 Nel testo originale è Helusion, termine che troviamo anche alla fine del racconto “Ombra”: I am SHADOW, and my dwelling is near to the Catacombs of Ptolemais, and hard by those dim plains of Helusion which border upon the foul Charonian canal (Io sono OMBRA, e la mia dimora è vicina alle catacombe di Tolemaide, e presso quelle cupe lande infernali, dove scorrono le acque impure di Caronte!). Strano che in “Ombra” dim plains of Helusion sia tradotto con “cupe lande infernali” (in un’altra traduzione sono le “fosche lande infernali”) e in “Eleonora” saint of Helusion come “santa del Paradiso”. Poe usò poi lo stesso termine nella sua recensione di Orion, An Epic Poem in Three Books di Richard Henry Horne, pubblicata sul «Graham’s Magazine» nel marzo 1844. La grafia Helusion, comunque, è dovuta a un’errata traslitterazione di Poe della parola greca Ἠλύσιον, dove la lettera iniziale eta è simile alla H e la ypsilon una u che in italiano diventa i (cfr. σῦριγξ, syrinx, da cui proviene siringa): Elisio è comunque l’aldilà della mitologia greca.

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Scrivo testi per il web e correggo bozze di manoscritti. Scrivo anche sul mio blog «Penna blu» e sull’aerosito ufficiale di F.T. Marinetti.

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