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Una novella su Edgar Allan Poe, scritta da una donna che fece scandalo nell’Ottocento italiano: con lo pseudonimo di Contessa Lara pubblicò il racconto “L’ultima visione fantastica di Poe” sul numero 16 della rivista «La vita italiana», il 25 giugno 1895.
La storia è ambientata a Baltimora e precisamente alla taverna chiamata Schot-Tower, dal nome della torre omonima, che abbiamo già conosciuto parlando della falsa bufala di Poe: è la torre di fusione.
Uno dei personaggi del racconto è un certo capitano Dudley, personaggio con tutta probabilità inventato, che avrebbe conosciuto Poe, ma di cui non c’è traccia nelle biografie del poeta.
La storia è il classico “racconto nel racconto”: un preambolo per introdurre i personaggi e infine il racconto vero e proprio, narrato da Poe.
La novella della Contessa Lara, sorta di danza macabra, combina elementi presi da due racconti di Poe: “La mascherata della Morte Rossa”, per la festa da ballo, e “Re Peste”, sia per la festa sia, soprattutto, per l’atmosfera lugubre e per i personaggi, defunti dotati di vita.
La Contessa Lara
La Contessa Lara, pseudonimo di Eva Giovanna Antonietta Cattermole, nacque il 26 ottobre 1849 – tre settimane dopo la morte di Edgar Allan Poe – e morì, uccisa con un colpo di pistola dal suo amante, il 30 novembre 1896.
Nel corso della sua breve vita ha pubblicato sillogi poetiche, raccolte di novelle, libri per l’infanzia e due romanzi.
L’ultima visione fantastica di Poe
Novella della Contessa Lara
Un assai vecchio amico della mia famiglia, capitano di lungo corso, il capitano Dudley, aveva, a Baltimora, conosciuto il poeta Edgardo Poë1.
Gl’importanti mercati di farina di Baltimora riconducevano regolarmente il capitano in codesto posto fortificato dell’Unione.
Edgardo Poë e il capitano Dudley s’incontravano allora nella taverna della Schot-Tower, vicino alla Schot-Tower, la torre più alta del mondo2. La prima volta, fu dopo la morte della moglie e cugina d’Edgardo Poë, Virginia Clemm; il poeta aveva già subito due accessi di delirium tremens e dipoi viveva ipocondriaco e intemperante forsennato. L’ultima volta fu nel 1849.
Il capitano, sbarcato la vigilia, entrò nella solita taverna, dove ritrovò a tavola l’inevitabile Edgardo Poë. Sebbene il poeta fosse molto robusto, non ostante l’aspetto delicato, parve al capitano che dall’epoca del suo ultimo viaggio l’assiduo della Schot-Tower fosse singolarmente cambiato, scosso. Quella bella e superba testa dall’ampia fronte, dal naso profilato, dalla bocca fine e triste, era d’un pallore di ammalato; i grandi occhi violacei sembravano a un tempo più luminosi e più tenebrosi che mai: ed era codesto il loro doppio, straordinario carattere.
«Siete voi, capitano?» esclamò Poë. «Venite a proposito per essere almeno dell’opinione mia: che di quest’opinione son solo. Dicono tutti ch’io sono pazzo, mentre sono soltanto nervoso!».
E stese al marinaro la sua bianca manina femminile.
«Qual è la malattia paragonabile all’alcool?» rispose malinconicamente il capitano. «Voi l’avete scritto nel Gatto Nero, mio caro poeta».
«E neanche mi disdico. Ma quale altro mezzo esiste per isfuggire ai rancori letterari, alle vertigini dell’infinito, alle separazioni disperate, agli insulti della miseria? Adesso, una strana aberrazione del senso ottico fa che, in certe ore, il mondo sia per me una fantasmagoria. Ciò che noi vediamo, nello stato così detto normale, è egli una realtà o un’apparenza? Non ne so niente ancora. Ma è ormai quasi un anno che io procedo nella vita di maraviglia in maraviglia, di spavento in spavento».
In quel punto, passava lentamente nella strada, accosto alla porta vetrata della taverna, una giovane donna malata, sorretta da un’infermiera. La sua pelle era d’un colore di paglia vizza, e rughe innumerevoli le solcavano la fronte e il collo.
«Guardate, capitano!» gridò Edgardo Poë, rizzandosi a metà. «Quella povera malata ignora perché il suo involucro carnale rimane teso su l’ossatura del suo scheletro. Nessuno potrebbe dirne la causa. Ma io lo so. Ascoltate».
E Edgardo Poë si mise a raccontare presso a poco quanto qui segue e che il capitano Dudley ripeté alla mia famiglia. Il poeta parlava con un ardore e una serietà da mettere addosso i brividi.
«In quest’inverno, a Baltimora, di carnevale, c’era ballo da Sir Whilty. Invitato, arrivai per il primo al palazzo. Il portone era spalancato. Su la strada oscura esso segnava una chiazza di luce come una chiarità di lanterna magica. Su codesto fondo luminoso, le carrozze si fermavano, i convitati scendevano, s’agitavano e si perdevano nella lanterna, cioè nel vestibolo.
«Il vestibolo era ingombro di servi e i muri di attaccapanni. I convitati si toglievano i mantelli, e appendevano agli attaccapanni, gli uomini il soprabito, il pastrano, e le donne la pelliccia.
«Io guardavo: ma assistevo a uno spaventevole spettacolo. Ciascuno, insieme col proprio vestiario esterno attaccava pure l’involucro in acconciatura da festa, restando soltanto un nudo scheletro. Come la compagnia d’un teatrino di marionette, tutti que’ corpi senza ossatura restavano lì su gli attaccapanni: alcuni con le braccia penzoloni, trattenuti dal colletto del soprabito; altri piegati in due, con un’aria d’abbandono da far pietà.
«Poi ogni coppia, di due scheletri, uno alto e uno piccolo, entravano dalla parte del salone, dandosi il braccio, e andavano a salutare il padrone e la padrona di casa: gli unici di carne e d’ossa.
«Il fatto più strano è che né questi né i loro invitati non parevano accorgersi della metamorfosi. Tutti quegli scheletri chiacchieravano, passeggiavano senza maraviglia e senza confusione.
«Un’ultima coppia, in ritardo, entrò nel vestibolo; un uomo grosso, con de’ grandi baffi e una donnina dagli occhi languidi con una camelia d’un rosso vivo appuntata fra i capelli. Il cavaliere appoggiò le labbra su la camelia, non visto da alcun servo, e tutti e due, l’uomo e la sua compagna, entrarono. La camelia sola, tenuta ferma da quel bacio, restava sul capo della signora. Nulla, credetemi, di così lugubremente bello come quel fiore rosso su quella bianca testa macabra!
«Io rimasi come inchiodato su la soglia del salone, terrorizzato, non sapendo se anch’io avevo lasciato la carne del mio corpo al vestiario. Ero forse vittima d’un’allucinazione? Feci sonare il mio orologio – tanto per persuadermi che lo tenevo addosso – e ne contai ragionevolmente i rintocchi.
«Si ballò. Che orrore di allegria e di brio! La musica, nascosta dietro un boschetto di piante in fiore, intonava quadriglie, polke, valzer, trasportando nelle sue vertiginose spirali le coppie allacciate de’ ballerini.
«Tutti quegli scheletri saltavano con elegante agilità di tibie, ondulavano con bella disinvoltura di anche, si riversavano indietro con voluttuose movenze di toraci, salutavano abbassando il cranio con grazia straordinaria.
«In quell’agitazione, in quel miscuglio, non si udiva né il fruscio della seta, né il tintinnar dei gioielli; ma uno scricchiolio secco e continuo di giunture, simile a quello che fanno i ramoscelli morti in mezzo alle fiamme d’un focolare ardente.
«Ero ghiaccio dall’impressione atroce. Nullameno seguivo con occhio compiacente la camelia rossa, lo scheletro più gaio e petulante di tutti. Mi piaceva, lo confesso, e mi sentivo per lui quel primo calor d’amore che mi ricordava la mia povera cara morta, Virginia Clemm.
«Terminato il ballo, ciascuno, nel vestiario, s’affollava intorno agli attaccapanni. Vidi tutti indossar di nuovo, senza dolore né difficoltà, il proprio involucro umano – gli uomini col soprabito, le donne con la pelliccia; poi uscire tranquillamente dopo i complimenti e i saluti d’uso.
«La coppia giunta l’ultima fu pure l’ultima a andarsene. D’improvviso il gentile scheletrino dalla camelia mise un grido:
«“Ah!” disse «“mi hanno preso la mia pelliccia di raso bianco e m’han lasciata questa di raso color paglia!”.
«Si mise a ridere e se ne coperse. Subito io vidi delle grinze formarsi su ’l suo viso, su le spalle e su le braccia nude. Con la pelliccia estranea l’infelice aveva rivestito un involucro carnale di un’altra statura, che non aderiva più alla sua struttura anatomica, e ricadeva.
«Fuggii impaurito.
«Ebbene! Lo scheletro dalla camelia rossa l’ho ora riconosciuto in quella malata; è lui che si trascina così per la via; e invano i medici studieranno, consultando la scienza invano! Ciò ch’essi credono una malattia straordinaria non è che l’involucro d’una vecchia alta sur uno scheletro piccolo e giovane… I medici non capiscono nulla».
***
E Edgardo Poë si tacque. Aveva, pare, raccontato questo incubo con sinistra convinzione, e i suoi occhi, ne’ quali era una rara intensità di vita – riferiva il capitano Dudley – sembrarono in quel momento due carboni neri ardenti.
Il capitano fu colto da pietà e da terrore. Egli comprese che l’ipocondria e l’alcool insieme preparavano al poeta un terzo accesso di delirium tremens.
Il marinaro ripartiva il domani per Baltimora. Seppe di poi all’Hâvre3, per mezzo dei giornali, la triste fine d’Edgardo Poë.
Il poeta doveva recarsi a Nuova York. Colto per istrada da brividi e debolezza, s’era fermato a Baltimora. La solita taverna di Schot-Tower l’attrasse. Costì egli s’abbandonò a un di quei rapidi e copiosi assorbimenti d’alcool, in cui annegava, d’un tratto, i ricordi, le tristezze e la ragione. S’indugiò così nella taverna.
Il giorno dipoi, verso l’alba, un uomo fu trovato steso sul marciapiede d’una via remota di Baltimora. Non respirava più che debolmente. Nessuno riconobbe dapprima quel moribondo, che venne trasportato subito all’ospedale, dove spirò la domenica, 7 ottobre 1849, a soli trentasette anni4. Era il poeta Edgardo Poë.
Note
1 Consueta grafia, errata, dell’epoca.
2 In realtà era, al momento della sua costruzione nel 1828, la torre più alta degli Stati Uniti, misurando poco più di 71 metri.
3 Lé Hâvre, comune francese della Normandia.
4 Nei testi ottocenteschi si riscontra spesso errata la data di nascita di Poe, che qui viene posta al 1812, anziché al 1809.
Interessante, come sempre. BRAVO !!
Grazie, Riccardo.