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Nella ristretta – non così tanto in realtà – cerchia degli scrittori visionari, Poe occupa senza ombra di dubbio un posto di rilievo. Lo si può affiancare a giganti della fantascienza come Asimov e Huxley, a maestri del fantastico come Lovecraft e Howard, a sapienti narratori della natura umana e della società occidentale come Wilde.
Ed è dall’accostamento con quest’ultimo che voglio partire in questa mia disamina e personalissima interpretazione dei tre racconti che ho scelto, con la premessa d’obbligo di condividere quello che è solamente il mio personale punto di vista. Del resto, il bello della letteratura e delle arti in genere è proprio questo: sono per tutti. E se si è animati dal solo e sincero desiderio di condividere, ecco che allora tutte le opinioni sono bene accette.
La rovina della Casa degli Usher
«Noi pensiamo di essere eterni, questa è la nostra disgrazia. A scuola con c’insegnano a morire, sulla morte invece gli antichi egizi hanno costruito una civiltà»
Franco Battiato
Genova Today, 23 maggio 2021
Questa frase del maestro Franco Battiato mi offre un assist perfetto per introdurre il commento a quest’opera.
Vengo ulteriormente aiutato, rievocando una recente produzione televisiva, ad opera di Mike Flanagan, che propone una versione alternativa, personalizzata, ma assai efficace di questa storia bellissima e terribile, elargendo in realtà anche un corposo omaggio a tutta la produzione letteraria del genio nativo di Boston, Massachusetts.
La storia comincia con la narrazione in prima persona del protagonista che si reca presso l’amico Roderick Usher, che lo aveva pregato di raggiungerlo, perché malato e scivolato in profondi disagi psicofisici.
Quello che arriva subito al lettore, sin dalle prime righe, è un profondo senso di angoscia, tristezza e abbandono, una sorta di decadenza totale, che il narratore esprime alla vista della Casa degli Usher, dimora che ha ospitato le generazioni di questa nobile famiglia, dal passato glorioso.
“Guardavo la scena che mi stava davanti: e lo spettacolo della casa e del paesaggio all’intorno, le fredde mura, le finestre vuote come orbite, i radi filari di giunchi e alcuni bianchi tronchi rinsecchiti mi davano un avvilimento così estremo che potrei paragonarlo soltanto allo stato del mangiatore d’oppio durante l’amaro ritorno alla realtà quotidiana, l’orribile momento in cui il velo si dilegua.”
Edgar Allan Poe, Storie di terrore e di follia, Mondadori 2015
Ognuno di noi ha un principio e una fine. Entrambi non sono preventivabili né controllabili – salvo nei casi di suicidio – dall’Essere Umano. L’unica cosa che ci è concessa è di fare qualcosa nel mezzo tra i due momenti, non conoscendo, per di più, la lunghezza di questo “periodo di mezzo”.
Sta di fatto che l’unica certezza della vita è la morte.
Un concetto semplice da apprendere, ma sistematicamente stigmatizzato.
Rileggendo le righe di questo racconto meraviglioso si può intravedere la metafora di quella che, ad oggi, alcuni riconoscono come una delle cause del declino della società occidentale.
La famiglia Usher, nel corso dei secoli, prolifera ed eccelle nella cultura e nella filantropia, accumulando beni materiali e ricchezze, perseverando in qualcosa che naturalmente giungerà alla fine. Ogni valore, ad esclusione della memoria, cesserà di essere.
E quando l’epilogo – la malattia di Lady Madeline e la conseguente follia di Roderick – giunge, viene scotomizzato. Quello che è stato fatto di buono, viene privato di qualsiasi significato, di fronte a quello che si sta per perdere. Non accettare l’ineluttabile, proseguire in un’esistenza dove si ricerca a tutti i costi l’ascesa, nella sua accezione distorta, che è quella della ricchezza e del possesso, sforzandosi fino all’autoconvincimento che tutto questo possa non conoscere mai la fine, porta fatalmente a cadute verticali e rovinose, come quella della Casa degli Usher.
Una discesa nel Maelstrom
“Vi parrà una millanteria, ma in fede vi dico il vero: cominciai a riflettere che cosa stupenda fosse morire in quel modo, e quanto fossi sciocco a preoccuparmi di una cosa così piccola come la mia vita, di fronte ad una manifestazione così magniloquente della potenza divina.”
Edgar Allan Poe, Storie di terrore e di follia, Mondadori 2015
Quando accade l’imponderabile; quando ci si trova di fronte a qualcosa che mai avremmo immaginato, quando ci troviamo coinvolti, più o meno inconsapevolmente, in qualcosa di così tanto più grande di noi, da avere istantaneamente la limpida e incontrovertibile certezza di non essere in grado di gestirla, ognuno di noi potrebbe sprecarsi in migliaia di esempi, per descrivere questo particolare momento. Momento nel quale l’unico sentimento che ci pervade e ci domina è la paura.
È grande l’insegnamento che si può ricavare da questo racconto. Guardare in faccia le cose che ci spaventano di più. Allargare l’animo e fare spazio, accogliere anche le cose più terribili e dolorose costa molta meno fatica di chiudersi e tentare di respingerle.
Affrontare ciò che ci spaventa forse non servirà a cancellare la paura, ma la paura può convivere con la lucidità, e soprattutto è una componente imprescindibile della vita di ognuno. La consapevolezza di una situazione, per quanto essa sia disperata e irreversibile, riesce a fare accettare anche le scelte più scellerate, come nel caso del protagonista del racconto, che arriva a comprendere il comportamento del fratello che, sconvolto dal terrore, gli sottrae quello che considera un appiglio sicuro per evitare di cadere vittima della furia degli elementi. Si abbandonano la supponenza e l’atteggiamento giudicante a favore della comprensione e del perdono e, per quanto possa sembrare paradossale, della serenità, e quando si raggiunge una tale consapevolezza si riescono anche ad accettare gli epiloghi più dolorosi, infatti lo stesso narratore della vicenda, quando si vede rifiutata la sua offerta di aiuto, abbandona il fratello al suo destino.
Ragionare in maniera lucida, di fronte a quanto ci spaventa, accettare di “fare entrare” la paura, può essere l’unico modo per ipotizzare una via di scampo o una soluzione e magari, se si è assistiti dalla fortuna, pur pagando un caro prezzo come accade al protagonista di questo racconto, avere la possibilità di raccontare ad altri la nostra storia e lasciare quello che è il più prezioso tra i doni, la memoria.
Il Diavolo nella torre
La routine conforta, ma la monotonia uccide
Antico detto
Concludo questo mio piccolo tributo all’opera di Poe con la rilettura di uno dei suoi racconti più brevi, probabilmente tra i meno conosciuti o meno evocati, ma che trova posto nelle primissime posizioni della mia personale classifica di gradimento. “Il Diavolo nella torre” si presenta come un’opera forse “atipica” tra la produzione di Poe. In questo racconto breve, infatti, la narrazione, pur mantenendo il consueto stile raffinato e descrittivo, non è caratterizzata dal consueto “climax”, che possiamo ritrovare ad esempio nel “Cuore rivelatore” o nella “Sepoltura prematura”, né dalle atmosfere tipiche del raccolto poliziesco de “Gli assassinii della Rue Morgue”, né tantomeno dalle ambientazioni fosche, tenebrose e oniriche dei già citati “Una discesa nel Maelstrom” e “La rovina della casa degli Usher”.
In quest’opera Poe dà spazio all’ironia, alla satira, alla denuncia sociale e alla passione per il bizzarro e lo strano, realizzando un racconto di poche righe che riesce a divertire e a suscitare riflessioni al tempo stesso.
Trovo sorprendenti le analogie con i mali del nostro tempo e della nostra società, descritti magistralmente nella metafora della borgata olandese di Vondervotteimittis, dove tutto va come deve andare, incarnando alla perfezione la routine che conforta. Si aggiungano il sempreverde desiderio di omologazione e la sempiterna avversione per tutto ciò che è diverso o che esce dai canoni del ben pensare e del politicamente corretto.
La monotonia che uccide, invece, si manifesta con lo sconvolgimento della routine a causa di qualcosa di diverso che irrompe.
Di fronte ad un evento nuovo, a qualcosa di sconosciuto, che prima o poi è destinato ad apparire nella vita di ognuno, dapprima stentiamo a riconoscerlo e concentriamo gli sforzi per mantenere lo status quo. Il cambiamento ci spaventa, ci destabilizza, ci rende improvvisamente vulnerabili. Affrontarlo e mettere in discussione le nostre certezze non è quasi mai la prima scelta, ma lascia il posto alla confusione e alla paura che sfociano in meschini, patetici e inefficaci tentativi di mantenere intatto lo stato delle cose.
Con questa opera Poe ci insegna che i cambiamenti e le novità esistono nelle vite di ognuno di noi, anche in quelle che, all’apparenza, possono sembrare perfette e non meritevoli della minima modifica. Essi possono essere belli o brutti, improvvisi o lenti e penetranti, ma poco cambia. Anzi niente, se si parte dall’unico presupposto certo, e cioè che sono inevitabili.
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