Indice degli argomenti
Prefazione
Breve storia del racconto. “The Fall of the House of Usher” fu pubblicato nel settembre 1839 sul «Burton’s Gentleman’s Magazine». Poe ne mandò una copia a Washington Irving, che apprezzò la storia.
Sulla presente traduzione. Come i precedenti, anche “La rovina della Casa degli Usher” è contenuto nella raccolta pubblicata nel 1911 da R. Bemporad & Figlio Racconti straordinari. Com’era d’uso all’epoca, i nomi propri di persona sono stati tradotti in italiano, quindi Roderico e Maddalena sono rispettivamente Roderick e Madeline.
La rovina della Casa degli Usher
Il suo cuore è un liuto sospeso;
Appena che si tocchi, esso risuona.
De Béranger
Durante tutta una buia giornata, mesta e silenziosa, dell’autunno dell’anno, in cui nuvole gravi e basse coprivano il cielo, io aveva attraversato, solo e a cavallo, una parte di un paese eccezionalmente triste; e alla fine, quando stavano per cadere le ombre della sera, mi ritrovai in vista della malinconica Casa degli Usher. Non so come fosse, ma, alla prima occhiata sull’edifizio, sentii riempirmi l’animo d’insopportabile mestizia; dico insopportabile, perché questo sentimento non era mitigato da nessuna di quelle ideali dolcezze poetiche colle quali la mente per il solito riceve le più severe naturali immagini delle cose desolate o terribili. Guardai ciò che mi stava dinanzi, il castello soltanto e in complesso quello che gli era d’intorno: i muri squallidi; le finestre come occhi spenti; pochi cespi di giunco; pochi tronchi bianchi di alberi risecchiti; e provai quel grave abbattimento dell’anima a cui, fra le sensazioni umane, non posso trovare migliore confronto che lo svegliarsi dell’appassionato mangiatore d’oppio, il suo doloroso ritorno alla vita quotidiana, l’orribile cadere del velo. Era un ghiaccio, un venir meno, un male al cuore, un’invincibile tristezza del pensiero che nessun pungolo della immaginazione poteva rivolgere a nulla di alto. Che cosa era — mi fermai a pensare — che cosa era mai ciò che mi abbatteva contemplando la Casa degli Usher? Era un mistero del tutto impenetrabile; non potevo combattere i pensieri tenebrosi che mentre riflettevo si accumulavano dentro di me; e fui costretto ad appagarmi della modesta conclusione che se vi sono, senza alcun dubbio, unioni di oggetti naturali semplicissimi che hanno la virtù di far nascere nel nostro animo sentimenti cosifatti, pure la ricerca di questa virtù appartiene a studi che sono superiori alla nostra scienza. Forse, consideravo, una piccola differenza nell’ordinamento de’ particolari di una scena, dei particolari del quadro, potrebbe bastare a modificare, od anche a distruggere il potere di destare una triste impressione; ed accogliendo tale idea guidai il mio cavallo all’aspra riva di uno stagno nerastro che si distendeva davanti all’edifizio come specchio immobile; vi guardai, e con un tremito maggiore di prima vidi le immagini riflesse rovesciate dei giunchi grigi, dei tronchi squallidi, e delle finestre come occhi senza vita.
Eppure, in questo luogo di malinconia, mi ero proposto di passare alcune settimane. Il suo proprietario, Roderico Usher, che non avevo veduto ormai da molti anni, ed era stato il mio allegro compagno d’infanzia, mi aveva poco prima mandato una lettera che avevo ricevuto molto lontano di lì, e il cui contenuto mi sollecitava in un modo così strano a venire da costringermi a dare una risposta proprio di persona. Lo scritto stesso dava a divedere un’agitazione nervosa; parlava di grave malattia fisica, di una malattia mentale che l’opprimeva, ed esprimeva il vivissimo desiderio di vedermi come il suo migliore e veramente unico personale amico, nella cui lieta compagnia sperava di trovare un po’ di sollievo a’ suoi malanni. Tutto questo ed altro ancora era detto in tale maniera, ed egli si raccomandava con tanto calore, che non esitai un momento ad accettar subito un invito, che, nonostante, io stesso giudicavo molto curioso.
Da ragazzi, è vero, eravamo stati compagni, intimi amici, ma in fondo avevo saputo pochissimo intorno a lui, perché si era sempre mantenuto molto riservato nelle sue abitudini; sapevo però che apparteneva a famiglia antichissima, nota da tempo immemorabile per una soverchia e particolare sensibilità di temperamento, che nel corso degli anni si era andata manifestando con molte opere di un’arte eletta, con atti molteplici di carità munificente ed opportuna, ed anche con una profonda devozione alle difficoltà della scienza musicale, forse anche più che alle sane dottrine, facilmente riconoscibili, delle sue bellezze. Non ignoravo altresì il fatto notevolissimo che il tronco della famiglia degli Usher, comunque molto antico, non aveva dato germogli in nessun tempo; ossia che l’intera famiglia era venuta giù giù in linea di discendenza diretta, e, tranne piccole e temporanee eccezioni, era stato sempre a questa maniera. Questo fatto, pensai, mentre andavo considerando come il genere dei luoghi corrispondesse perfettamente al carattere bene accertato della gente, e riflettevo sull’azione possibile che nel lungo volgere de’ secoli l’uno poteva avere avuto sull’altro; questo fatto, forse, della mancanza di rami collaterali, e l’immutata trasmissione quindi di padre in figlio del patrimonio col nome, aveva alla fine tanto immedesimato le due cose da far sì che il nome della tenuta prendesse la curiosa e dubbiosa denominazione di Casa degli Usher; una denominazione che, nelle menti dei contadini che l’usavano, confondeva ad un tempo e la famiglia e la dimora della famiglia.
Ho detto che l’idea, alquanto puerile, di guardar giù nello stagno, aveva reso più profonda la mia prima triste impressione, e non vi può essere alcun dubbio che il convincimento nel mio interno dell’accrescersi di tale superstizione — perché non dovrei usare questo vocabolo? — servisse appunto ad affrettare l’aumento stesso. Questa, come sapevo già da tempo, è la legge apparentemente assurda di tutti i sentimenti che hanno origine nel terrore, e in essa potette essere l’unica ragione che, allorquando dall’immagine dello stagno alzai gli occhi al castello, si facesse maggiore nella mia mente una strana fantasia; una fantasia davvero così ridicola che io vi accenno soltanto per dimostrare la notevole forza delle sensazioni che mi opprimevano. Il mio cervello dunque aveva lavorato talmente da farmi credere proprio che attorno a tutto il castello e alla sua tenuta si avvolgesse un’atmosfera speciale ad essi e alle prossime vicinanze, una atmosfera punto somigliante all’aria del cielo; che era venuta su dagli alberi rifiniti, dai muri grigi, dallo stagno silenzioso, come un vapore pestifero e misterioso, del colore del piombo, visibile appena, tetro e grave.
Scacciai dal mio spirito ciò che doveva essere stato un sogno, e mi posi ad osservare il vero aspetto dell’edifizio, che più che altro appariva carico di troppi secoli. Gli anni avevano portato via ogni colore e piccole fungosità si stendevano su tutta la parte esterna, e dalle gronde la coprivano come un ragnatelo finemente intrecciato. Nel complesso però non vi era un grande deterioramento; nessun muro era caduto, ma faceva caso la notevolissima differenza fra la stabilità generale e la condizione particolare delle pietre che una per una sembravano disfarsi; ciò che mi rammentava molto le condizioni buone in apparenza di certi vecchi legnami, marciti per molti anni in qualche sotterraneo dimenticato, senza alcuna noia dell’aria esterna. Fuori di questo indizio di vasta rovina, il fabbricato dava pochi segni di non essere abbastanza solido; forse un occhio scrutatore avrebbe potuto scoprirvi uno spacco appena percettibile, che dal tetto veniva giù giù tortuosamente a zig zag sulla facciata, e finiva nelle tetre acque dello stagno.
Osservando queste cose, cavalcando per una breve strada selciata, ero giunto al palazzo; un servitore si occupò del mio cavallo, ed io entrai nel gotico portone del vestibolo, dove un cameriere con passo furtivo, silenziosamente, mi guidò attraverso vari ed intricati corridoi allo studio del suo padrone. Molto di quello che vidi passando, tornò a rendermi più vivo il sentimento di cui ho già parlato; eppure quanto mi cadeva sott’occhio, l’intaglio dei soffitti, il severo addobbo delle pareti, il nero d’ebano degli impianti, i trofei fantastici delle armi che tremavano dietro ai miei gravi passi, erano soltanto delle cose alle quali, come ad altre somiglianti, avevo consuetudine dall’infanzia, e non potevo esitare a sentirmene in dimestichezza, mentre rimanevo meravigliato delle insolite fantasie che in me andavano destando le loro notissime immagini. Su una delle scale incontrai il medico della famiglia; il suo contegno mi parve impacciato e quello di un furbo volgare; si avvicinò a me con trepidanza, e dopo continuò la sua strada. Il cameriere allora aprì un uscio e m’introdusse dal suo padrone.
La stanza era molto grande ed ariosa; le finestre, lunghe, strette, finivano in angolo acuto, e trovavansi così in alto dal nero impiantito di querce che non vi si poteva arrivare; deboli raggi di luce cremisina ne attraversavano i vetri inferriati e rischiaravano discretamente dintorno i principali oggetti; ma l’occhio però si affaticava invano per vedere gli angoli più lontani della stanza, o gli sfondi del soffitto dipinto. Le pareti erano addobbate con tappezzerie scure; la mobilia per lo più bizzarra, vecchia e strappucchiata; molti libri o strumenti musicali erano qua e là sparpagliati senza però riuscire a infondere attorno un soffio di vita. Sentivo di respirare un’atmosfera di afflizione; un’aria grave, profonda e d’invincibile tristezza, si stendeva su tutto e penetrava in tutte le cose.
Quando entrai l’Usher si alzò dal divano sul quale era tutto sdraiato, e venne a salutarmi con tal vivo calore, che mi parve sulle prime effetto di una cordialità esagerata, di uno sforzo a cui costringeva sé stesso un uomo annoiato del mondo; ma guardatolo in viso, mi convinsi della sua piena sincerità. Ci si mise a sedere, e, mentre egli stava zitto, l’osservai con un sentimento che era tra la compassione e la paura. Certamente nessuno poteva mai aver fatto il terribile cambiamento che in così poco tempo aveva fatto Roderico Usher; e mi riesciva difficile di convincermi che la scialba persona che mi stava dinanzi fosse proprio il compagno de’ miei primi anni di adolescenza. Eppure il carattere del suo viso era stato sempre particolare: il colore della sua carnagione cadaverico; l’occhio grande, lucidissimo, lacrimoso; le labbra sottili, pallidissime e di una curva più che bella; il naso delicato di tipo ebreo, ma con una larghezza di narici insolita in quelle forme; il mento delicato e rotondo, che non dava quindi alcun segno di forza morale; i capelli morbidi e sottili come fili di ragno; a tutto questo si aggiunga una fronte smisurata, e si avrà un complesso che non si poteva dimenticare tanto facilmente. Ma ora questi lineamenti erano così peggiorati e la loro espressione aveva subito tale cambiamento che rimanevo incerto sulla persona alla quale parlavo. Il pallore sepolcrale della sua pelle e il luccichio dell’occhio mi colpirono sopra ogni altra cosa e mi fecero paura; i capelli come seta, lasciati crescere senza cura e senza misura, quale finissimo tessuto, non cadevano ma ondeggiavano attorno al viso, e io non potei, anche affaticandomici, associare la loro maniera arabesca a qualsiasi idea di semplicità umana.
Nei modi del mio amico rimasi subito meravigliato di trovare una certa incoerenza ed incostanza, di cui non tardai a trovare l’origine in una serie di piccoli ed inutili pensieri che egli si dava per vincere una abituale incertezza, una agitazione nervosa troppo viva; veramente, a qualche cosa di questo genere ero stato preparato dalla sua lettera stessa, dai ricordi di certi suoi tratti giovanili, e da quello che si poteva dedurre dalla sua conformazione fisica e dal suo temperamento. Le sue maniere un poco erano vivaci, un poco gravi; la voce da un momento all’altro o tremolava dubbiosa, come se il suo spirito non avesse più alcuna volontà, o suonava breve e forte, a scatti, dura, lenta e cavernosa; o gutturale, oscillante e di varia inflessione, come si può osservare nell’uomo del tutto alterato dal vino, e nell’ostinato mangiatore d’oppio, nei periodi del loro maggiore eccitamento.
Parlò appunto in questo tono dello scopo della mia visita, del suo vivissimo desiderio di vedermi, del conforto che se ne aspettava, e si diffuse lungamente, spiegando a suo modo, sul carattere della sua malattia. È un male di famiglia, diceva… una semplice affezione nervosa, continuava subito dopo, della quale, era certo, sarebbe guarito ben presto. Si manifestava con un cumulo di sensazioni punto naturali; alcune delle quali anzi, mentre andava descrivendomele, mi attrassero e mi confusero, sebbene potrebbe darsi che a questo contribuissero molto le sue frasi e il tono del suo racconto. Soffriva dunque vivamente di una morbosa sensibilità fisica; degli alimenti tollerava solo i più semplici; i vestiti non poteva averli che di particolari tessuti; tutti gli odori de’ fiori gli davano soffocamento; la luce, anche debole, gli faceva dolere gli occhi; eccetto alcuni suoni particolari, cioè quelli degli strumenti a corda, odiava tutti gli altri.
Capii che era uno schiavo che soggiaceva a una specie di terrore del tutto irragionevole. Morirò, diceva; bisogna che io muoia di questa disgraziata fissazione; finirò proprio a questa maniera; temo di ciò che potrà accadere, non per sé stesso, ma per le conseguenze. Mi vengono i brividi pensando che un caso qualunque, de’ più volgari, può avere influenza su questa insopportabile agitazione della mia anima. Il pericolo non mi spaventa veramente che nel suo effetto assoluto: il terrore. In queste condizioni d’infiacchimento, proprio pietose, sento che presto o tardi giungerà il punto in cui dovrò abbandonare ad un tempo e la vita e la ragione in qualche battaglia col fantasma sinistro della Paura!
Seppi anche, ad intervalli, interrottamente, per via di mezze parole e parole velate, un’altra particolarità del suo stato mentale; e cioè che era dominato da certe impressioni superstiziose relative al castello che abitava, e dal quale non aveva più osato d’uscire da parecchi anni. Si trattava di un potere a cui attribuiva grande parte e di cui discorreva in modo troppo oscuro per essere qui riprodotte le sue parole. Questo potere che, secondo gli diceva l’edifizio ereditario, soltanto con alcune particolarità che presentava nella sua forma e nella sua sostanza, aveva, dopo lunghi patimenti, acquistato sopra il suo animo, consisteva in un effetto che il fisico dei muri grigi, delle torricelle e dello stagno nerastro aveva alla fine prodotto quasi sul morale della sua esistenza.
Ammetteva, nonostante, ma non senza qualche dubbiezza, che molto della particolare malinconia di cui era afflitto, poteva avere origine più naturale e più chiara nella certezza della fine triste e non lontana, che avrebbe avuto una malattia grave ed antica di una sua diletta sorella, che per tanti anni era stata l’unica sua compagna, ed era l’unica sua parente sulla terra. — La sua morte, —diceva, con un’amarezza che non dimenticherò mai, — lascierà me, me, il disperato e il debole, ultimo dell’antica razza degli Usher. — Mentre parlava, lady Maddalena, così chiamavasi la sua sorella, passò lentamente in fondo alla stanza e si allontanò senza accorgersi della mia presenza; io la guardai con grande meraviglia ed anche con un certo terrore, e non seppi rendermi ragione del sentimento che mi oppresse finché i miei occhi seguirono i suoi passi; quando l’uscio alla fine si chiuse dietro a lei, rivolsi lo sguardo istintivamente ansioso al viso del fratello, ma egli l’aveva coperto colle sue mani, e non potei veder altro che i suoi scarni diti divenuti pallidissimi, e le copiose ed ardenti lagrime che scorrevano attraverso ad essi.
La malattia di lady Maddalena aveva dato molto da fare alla scienza dei suoi medici, che avevano conchiuso con questa curiosa diagnosi: «Un’apatia costante, un esaurimento graduale della sua persona, frequenti affezioni sebbene leggiere, di un carattere in parte cataletticos». Fin’allora aveva coraggiosamente sopportato il suo male e non si era voluta nemmeno mettere a letto; ma verso la fine della sera appunto che ero arrivato al castello, come mi disse poi nella notte Roderico con commozione indicibile, aveva dovuto piegare al rifinimento dell’infermità distruttrice, e seppi che l’occhiata che avevo potuto dare alla sua persona era stata probabilmente l’ultima, e che, almeno viva, non l’avrei più riveduta.
Ne’ vari altri giorni che seguirono, il nome di lei non fu rammentato né dall’Usher, né da me; e durante questo tempo feci di tutto per sollevare la malinconia del mio amico. O dipingevamo o leggevamo insieme, o io ascoltavo, come in un sogno, tipiche improvvisazioni sulla sua espressiva chitarra; e così a mano a mano che un’intimità maggiore mi faceva penetrare nei più segreti recessi della sua anima, sempre più mi persuadevo con dolore dell’inutilità di ogni mio tentativo per ravvivare una mente dalla cui tristezza, come da una virtù sua propria, per ogni verso e su qualunque cosa del mondo fisico e morale, emanavano raggi di costante desolazione.
Non dimenticherò mai le tante ore solenni passate col signore di Casa Usher, ma non riuscirò a dare un’idea esatta del genere degli studi, o dei lavori, a cui mi conduceva di cui mi mostrava la via. Idealità di animo agitato e grandemente malaticcio proiettavano su tutto una luce violacea; le sue lunghe ed improvvise tristi canzoni risuoneranno per sempre ai miei orecchi, e fra le altre ho tenuto penosamente a memoria una certa curiosa trasformazione ed amplificazione della strana aria dell’ultimo valzer del Weber1. Le pitture a cui stava dietro la sua squisita fantasia ad ogni nuovo tocco si avviavano a idee indefinite che mi facevano provare un tremito, un tremito tanto più vivo quanto meno ne conoscevo la causa; ho ancora davanti ai miei occhi le loro immagini, e tenterei inutilmente di ritrarne una piccolissima parte che potesse esser contenuta soltanto nella misura della parola scritta. La perfetta semplicità, la nudità dei suoi disegni, fermava e soggiogava l’attenzione; e se giammai un mortale dipinse un’idea, quel mortale fu Roderico Usher. A me almeno, nelle condizioni in mezzo a cui mi trovavo dalle pure astrazioni che l’ipocondriaco si studiava di raccogliere sulle sue tele proveniva un così grave e insopportabile turbamento, che nemmeno per ombra ebbi mai a sentire contemplando le fantasticherie del Fuseli2, tristi di certo ma ancora molto determinate.
Una delle immaginazioni fantastiche del mio amico, dove lo spirito d’astrazione non ha parte intera, può esprimersi alla meglio con le parole. Un piccolo dipinto rappresentava l’interno di un sotterraneo a volta o galleria, lungo smisurato, rettangolare, con muri bassi, bianchi, lisci, semplici, interi. Certi altri particolari accessori del disegno servivano a dare l’idea che questa galleria trovavasi a grande profondità sotto la superficie della terra. Nella lunghezza senza fine non appariva un’uscita da alcuna parte; non si vedeva lume, o altra sorgente artificiale di luce, eppure un fascio di forti raggi si incrociavano da un capo all’altro, ed effondevano per tutto uno splendore misterioso ed inesplicabile.
Ho accennato alle condizioni non buone del suo nervo acustico che gli rendevano la musica insopportabile, a meno che non si trattasse di alcuni effetti di strumenti a corda; e forse questo essersi dovuto costringere alla chitarra, aveva finito in gran parte col dare alle sue composizioni un carattere fantastico: ma della fervida facilità de’ suoi improvvisi non era cosa lieve il darsi ragione. Essi dovevano essere stati ed erano, sia nelle note che nelle parole (poiché spesso alla musica univa rime improvvise) il risultato di quel forte raccogliersi, di quel concentrarsi dell’intelletto a cui già ho alluso, che si rende manifesto soltanto nei particolari momenti del più alto eccitamento artificiale.
Le parole di una di tali rapsodie mi rimasero impresse facilmente; forse perché nell’udirle, sotto il loro senso misterioso, mi parve di scoprire, e per la prima volta, che l’Usher avesse piena coscienza che la sua sublime ragione vacillava sul proprio trono. I versi intitolati Il Palazzo degli Spiriti, se non precisamente, erano a un di presso, questi3:
I.
Nella più verde delle nostre valli,
Dai buoni angeli abitata,
Una volta un bello e maestoso palazzo —
Raggiante palazzo, — Rialzava il suo capo.
Nel dominio del monarca Pensiero,
Quivi esso stava!
Giammai serafino spiegò l’ala
Su edilizio a metà si bello.
II.
Bandiere gialle, gloriose, d’oro,
Sul suo tetto ondeggiavano e sventolavano;
(Questo — tutto questo — fu nel vecchio
Tempo, di tanto passato);
E ogni leggera aura che scherzava
In quella dolce giornata,
Lungo gli spaldi fioriti e pallidi
Un alato profumo portava via.
III.
I viandanti in quella felice vallata
Attraverso due luminose finestre vedevano
Spiriti moventisi musicalmente
Ai buoni accordi di un liuto,
A un trono in giro, dove sedeva
Porfirogènito:
Nella pompa di sua gloria ben degna,
Reggitore del regno era veduto.
IV.
E di perle e di rubini scintillante
Era la porta del palazzo bello,
Donde veniva scorrente, scorrente, scorrente
E sfavillante sempre,
Una schiera di Echi, il cui dolce dovere
Era soltanto di cantare,
Con voci della maggiore bellezza,
La mente e la sapienza del loro re.
V.
Ma spirti maligni, in vesti di dolore,
Assalirono del monarca l’alto dominio;
(Ah, lasciateci In pianto, mai il dimeni
Albeggierà su lui, desolato!).
E tutt’intorno al palagio, la gloria
Che tinse di porpora e fiori,
Non è più che vaga ricordata istoria
Del vecchio tempo sepolto:
VI.
viandanti ora entro a quella valle,
Attraverso le finestre rosso illuminate, vedono
Grandi figure che muovonsi fantastiche
A discordanti melodie;
Mentre come strana e rapida fiumana,
Passando la pallida porta,
Orribile folla precipita fuori per sempre,
E ghigna, non sorride più.
Mi rammento bene che le impressioni che nacquero da questa ballata ci spinsero in una corrente di idee, tra le quali ne cito una dell’Usher, non perché fosse nuova (ad altri4 pure era passata per la mente), ma per l’ostinazione che vi metteva a sostenerla. Egli, generalmente parlando, credeva alla sensività di tutti gli esseri vegetali, ma nella sua fantasia disordinata. l’idea era divenuta più ardita, e, sotto certe condizioni, si estendeva anche al regio inorganico. Mi mancano le parole per esprimere la profondità, il completo ardore della sua convinzione, la quale, ancora, si connetteva, secondo ho già lasciato capire, alle pietre grigie del castello de’ suoi antenati. Quivi le condizioni della sensività, egli immaginava, erano state adempiute nel modo di collocazione delle pietre, nel loro ordinamento, ed anche in tutte quelle fungosità di cui si erano venute coprendo, e negli alberi cadenti che erano intorno, e più che altro nella lunga ed immutata sistemazione di queste cose, e nel loro specchiarsi nelle quiete acque dello stagno. L’evidenza di tale sensività, diceva, ed io qui raddoppiavo di attenzione, si manifestava nel graduale ma certo condensamento sulle acque e sui muri di un’atmosfera che era loro propria; ed aggiungeva che la conseguenza era chiara nell’azione silenziosa, ma importuna e terribile, che per centinaia di anni aveva plasmato i destini della sua famiglia, e che aveva fatto lui come ora lo vedevo, come egli era. Queste idee non hanno bisogno di commenti, ed io non ne farò.
I nostri libri, i libri che da anni formavano gran parte della vita intellettuale dell’infermo, erano, come si può supporre, in stretta relazione col suo carattere fantastico. Studiavamo insieme opere come il Vert-vert e la Chartreuse del Gresset; la novella di Belfagor del Machiavelli; Il Cielo e l’Inferno dello Swedenborg; Il Viaggio sotterraneo di Nicola Klimm5; La Chiromanzia di Roberto Flud, di Giovanni d’Indagine e del De La Chambre; il Viaggio nell’Azzurro del Tieck; e la Città del Sole del Campanella. Uno dei volumi preferiti era una piccola edizione in ottavo del Directorium Inquisitorium del domenicano Emerico De Gironne; nel Pomponio Mela vi erano passi intorno agli antichi Satiri affricani e agli Egipani, sui quali l’Usher avrebbe fantasticato per delle ore. La sua migliore delizia la trovava però in un rarissimo e curioso libro in quarto gotico, e cioè nel manuale di una chiesa dimenticata, le Vigiliae Mortiforum secundum Chorum Ecclesiae Maguntinae.
Senza volere avevo la mente al rito curioso di questo libro e alla probabile sua efficacia sull’ipocondriaco, allorché una sera, avendomi dato bruscamente la notizia che lady Maddalena non era più, mi disse che intendeva, prima di seppellirla definitivamente, di conservarne il corpo per quindici giorni in uno dei numerosi sotterranei dentro i muri maestri del castello. La ragione che adduceva per questo suo particolare proponimento era così umana che io non mi presi la libertà di discuterla; egli, come fratello, aggiungeva, era stato condotto a tale risoluzione considerando il carattere eccezionale della malattia della defunta, una certa importuna e viva curiosità da parte dei medici, ed anche la positura troppo alla vista e lontana della tomba di famiglia. Non posso negare che richiamando alla mente l’aspetto sinistro della persona che incontrai sulle scale il giorno del mio arrivo al castello, non ebbi davvero desiderio di oppormi a ciò che riguardavo come una precauzione innocente sì, ma ottima e naturale.
Pregato dall’Usher, l’aiutai io stesso nei preparativi della sepoltura temporanea, e dopo avere collocato il corpo nella bara, lo portammo da noi soli nel luogo destinato: un sotterraneo rimasto chiuso da tanto tempo che le nostre torce, mezzo spente in un’atmosfera così soffocante, non ci davano modo di esaminarlo bene. Era piccolo, umido, senza un filo di luce, che non vi poteva penetrare da nessuna parte; a grande profondità e in quel lato del castello che corrispondeva proprio sotto alla mia camera. Forse negli antichi tempi feudali
era stato destinato all’orribile scopo di prigione a vita; poi come deposito di polvere, o di qualche altra sostanza infiammabilissima; giacché una parte del suolo e le pareti interne del lungo corridoio che avevamo percorso per arrivare fin lì erano accuratamente rivestite di rame. La porta, di ferro massiccio, anch’essa protetta a quel modo, quando col suo gran peso girava sugli arpioni, mandava un suono metallico acuto tutto particolare.
Depositato il feretro su de’ cavaletti in questo luogo d’orrore, sollevammo un poco il coperchio della bara che non era ancora avvitato, e guardammo il viso del cadavere. Fui subito colpito dalla grande rassomiglianza che c’era fra sorella e fratello, e costui, forse indovinando i miei pensieri, mormorò alcune poche parole dalle quali seppi che erano gemelli e che fra loro erano esistite sempre simpatie di un’indole quasi incomprensibile. Vinti dal ribrezzo, però, togliemmo presto gli occhi da quella vista. Il male che aveva condotto alla tomba la lady in piena giovinezza aveva lasciato, come segue nelle malattie di carattere strettamente catalettico, l’ironia di un leggero colorito sul seno e sul viso, e sulle labbra un sorriso languido e incerto che è terribile nella morte. Rimettemmo a posto ed avvitammo il coperchio, e dopo aver chiusa la porta di ferro rifacemmo penosamente il nostro cammino verso il piano superiore che non aveva minore tristezza.
Trascorsi alcuni giorni di amaro dolore seguì un cambiamento notevole nei sintomi del disordine mentale del mio amico. Sparite le sue solite maniere; neglette e dimenticate le consuete occupazioni, girava da una stanza all’altra senza scopo, con passo precipitato ed ineguale. Il pallore del suo viso era ancora, seppur possibile, cresciuto; il luccichio del suo occhio del tutto scomparso; non udivo più il suono aspro che aveva a volte la sua voce, e un tremulo balbettamento come causato da grande terrore costituiva ora consuetamente il suo modo di parlare. Talvolta davvero mi accadeva d’immaginarmi che la sua mente agitata senza posa fosse oppressa da qualche grave segreto che non riusciva a trovare il coraggio necessario di confidarmi; talaltra ero costretto a darmi ragione di tutto colle sue fantasie pazzesche, poiché lo osservavo per lunghe ore cogli occhi fissi nel vuoto, in atto di profonda attenzione, come se stesse ascoltando un rumore immaginario. Non è da stupirsi che la sua condizione mi spaventasse e prendesse anche me; sentivo insinuarmisi addosso a grado a grado, lentamente ma sicuramente, la strana efficacia delle sue superstizioni fantastiche e di tanto contagioso effetto.
Una notte specialmente, sette o otto giorni dopo che avevamo deposto lady Maddalena nel sotterraneo, andando a letto, ebbi a provare il potere di tale sensibilità. Non mi riusciva di pigliar sonno; le ore fuggivano ad una ad una; mi studiavo di ragionare sulla nervosità che avevo addosso, e tentavo di persuadermi che molto, se non tutto, di ciò che sentivo doveva dipendere dalla suggestiva azione della malinconica mobilia della camera, dagli addobbi scuri e cadenti che non erano lasciati in pace dal vento, che soffiava dentro ed annunziava un prossimo temporale, e si muovevano qua e là sui muri come per convulso, e stridevano noiosamente attorno al parato del letto. Ogni mio ragionamento fu vano; un terrore invincibile a grado a grado mi penetrò tutto, ed alla fine oppresse senza ragione il mio cuore un incubo di spavento. Mi scossi respirando forte, e, cercando di sollevarmi sui guanciali, guardai con ansia nella fitta oscurità della camera ed ascoltai, non so perché, e forse spinto da sentimento istintivo, certi suoni bassi e vaghi che giungevano chi sa di dove, a lunghi intervalli, tra il fracasso del temporale. Sopraffatto da un forte senso di orrore, inesplicabile ma insopportabile, mi rivestii alla lesta, sentendo che non avrei più potuto dormire in tutta la notte, e mi misi a girare presto qua e là per la camera, per tentare di vincere la dolorosa condizione in cui ero caduto.
Mi ero mosso appena in questo modo, allorché un passo leggero sulle scale contigue richiamò la mia attenzione. Riconobbi subito che era quello dell’Usher, il quale un minuto dopo picchiò lievemente alla mia porta ed entrò con un lume in mano. Il suo viso era secondo il solito cadaverico, ma di più egli aveva negli occhi una specie di allegrezza da folle, e in ogni suo atto un isterismo che voleva raffrenare. Questo suo aspetto mi fece spavento; però qualsiasi cosa era preferibile alla solitudine che avevo sofferta così a lungo, ed accolsi la sua presenza come un sollievo.
— E voi non avete veduto nulla? — disse bruscamente, dopo aver guardato fisso intorno a sé in silenzio per alcuni momenti; — non avete dunque veduto nulla? Ma, aspettate! Lo vedete anche voi. — Parlando così, pose bene al sicuro il suo lume, e fattosi con furia a una delle finestre, la spalancò all’uragano: l’impeto del vento non ci faceva quasi più reggere in piedi.
Era veramente una notte tempestosa, orribile e bella; una notte strana, eccezionale nel suo terrore e nella sua bellezza. Pareva che nelle vicinanze si fosse formato un turbine, perché il vento cambiava spesso di direzione; e il grande accumularsi di nuvole, che erano scese così basse da pesare sulle torricelle del castello, non ci toglieva di osservare la velocità effettiva con la quale correvano da ogni parte l’una contro l’altra, senza perdersi via lontano.
Voglio dire che la loro grande densità non c’impediva di osservare questo; ma nondimeno non avevamo né un raggio di luna o di stelle né alcun lampo ci rischiarava colla sua luce. La superficie sottostante di tali masse smisurate di vapori in moto, come qualsiasi altro oggetto terrestre che ci era vicino e dintorno, appariva rosseggiante di una luce inesplicabile che proveniva da esalazioni gassose visibili e leggermente luminose che avvolgevano tutto il castello.
— Non dovete vedere, non guarderete questo! — dissi tremando all’Usher; e con dolce violenza togliendolo dalla finestra, lo condussi a una poltrona. — Questi spettacoli che vi stravolgono, non sono che fenomeni elettrici comuni, o forse hanno la loro origine ne’ miasmi fetidi dello stagno. Chiudiamo questa finestra, l’aria è fredda e pericolosa per la vostra costituzione. Ecco uno dei vostri romanzi prediletti; io leggerò e voi ascolterete e così passeremo insieme questa notte tremenda.
Avevo preso l’antico volume Mad Trist di Sir Launcelot Canning, ma l’avevo chiamato un prediletto dell’Usher più in ischerzo che sul serio; poiché, a dire il vero, nella sua goffa e sciocca prolissità vi era ben poco che potesse attrarre la mente eletta ed ideale del mio amico; però era l’unico che mi fosse capitato lì per lì tra mano, ed ebbi qualche speranza che l’eccitamento a cui adesso egli trovavasi in preda potesse aver sollievo anche nell’esagerazione delle pazzie che stavo per leggere; tanto più che la storia delle malattie mentali abbonda anomalie di questo genere. A giudicare difatti dalla grande attenzione colla quale ascoltava, o pareva ascoltare, le parole del racconto, avrei potato davvero esser contento dell’esito della mia idea.
Ero arrivato a quel punto ben noto della novella, in cui Etelredo, l’eroe del Trist, avendo chiesto invano di entrare all’amichevole nella dimora dell’eremita, crede di far bene di andar dentro per forza. Qui, ognuno può rammentarlo, le parole del novelliere corrono così:
«Ed Etelredo, che era per natura di un cuore valoroso, e che adesso era anche più forte, per via del vino che aveva bevuto, non attese altro a parlamentare coll’eremita, che era proprio un ostinato e un malizioso, ma, sentendo che gli pioveva sulle spalle e temendo che scoppiasse un temporale, alzò d’un subito il suo bastone, e a colpi aprì subito una strada alla sua mano inguantata di Ferro, fra le assi della porta. Dopo, tirando fortemente a sé, spaccò, sconquassò, e mandò tutto in pezzi in tal modo che il rumore del legno secco risonante nel fendersi, diede allarme e si ripercosse per tutta la foresta».
A queste parole sobbalzai per la paura e mi formai un pochino; mi era parso (ma subito fui persuaso che doveva essere un effetto della mia fantasia eccitata) mi era parso che da un punto lontano del castello giungesse confusamente ai miei orecchi qualche cosa che, per la precisa somiglianza, si sarebbe giudicato certamente l’eco smorzato ed ammortito dello spaccamento e sconquassamento descritto con tante particolarità da Sir Launcelot.
Il coincidere soltanto di ciò che avevo letto con quello che mi sembrava di avere udito aveva senza dubbio dovuto fermare la mia attenzione, poiché tra lo scricchiolio dei telai delle finestre, e tutti gli altri veri, soliti rumori del temporale che aumentava ancora, il suono in sé stesso non era tale davvero da potermi spremere o turbare. Continuai la narrazione.
«Ma il buon campione Etelredo, entrato allora in casa, ebbe subito da arrabbiarsi e da meravigliarsi perché non trovò alcun segno dell’eremita malizioso, ma vide invece un dragone mostruoso e tutto squame, con una lingua di fuoco, che stava a guardia dinanzi a un palazzo d’oro con un impiantito d’argento; e sul muro era sospeso uno scudo luccicante di ottone, con questa leggenda incise:
«Chi entra qui, conquistator sarà;
«Chi il dragone uccide, guadagnerà lo scudo.
«Ed Etelredo alzò la mazza e diede un colpo sul capo al dragone che gli cadde dinanzi ed esalò l’ultimo suo respiro pestilenziale, con un urlo così terribile ed acuto, che Etelredo si tura gli orecchi con le sue mani per mitigarne il fracasso spaventoso, del quale mai prima si era sentito il simile».
Qui bruscamente mi fermai di nuovo e questa volta colpito da forte stupore perché non c’era più da dubitare che io non avessi proprio sentito un rumore che pareva venir di lontano, da qual parte mi sarebbe state impossibile di dire, ma con un suono acuto, lungo ed in modo eccezionale stridente e scricchiolante, il contrapposto precise all’urlo sovrurnano del dragone, descritto dal romanziere, e quale la mia fantasia se l’era già immaginato.
Oppresso, come di certo dovevo essere, per via di questo secondo e straordinario fatto, da mille sentimenti di contrasto, in cui dominavano la meraviglia e il terrore, ebbi abbastanza presenza di spirito per evitare con una osservazione qualunque di eccitare la sensibilità nervosa del mio compagno. Non ero sicuro che que’ rumori fossero stati sentiti anche da lui, ma non mi era sfuggito che negli ultimi momenti il suo contegno era di molto cambiato; mentre prima era seduto di faccia a me, adagino adagino aveva girato la poltrona e si era rivolto all’uscio della camera, in modo che io potevo vedere di lui soltanto una parte. Perciò mi fu possibile di osservare che le sue labbra tremavano come se mormorasse qualche cosa che non riuscivo a comprendere; il suo capo era reclinato sul petto e sapevo che non dormiva perché di profilo avevo veduto il suo occhio spalancato e fisso, e che non dormisse ne avevo anche conferma dal leggiero moto costante della sua persona che si dondolava uniformemente da una parte e dall’altra. Osservato in un attimo tutto questo, tornai alla narrazione di Sir Launcelot, che continuava così:
«Ed ora il campione, essendo scampato dalla terribile furia del dragone, pensando allo scudo d’ottone e come fosse rotto l’incanto che vi stava sopra, tolse di mezzo la carcassa giacente sulla sua strada, e si avvicinò coraggiosamente sull’impiantito d’argento del Castello al muro dove era lo scudo, che, in verità, non indugiò a venir giù tutto d’un pezzo, ma cadde anzi ai suoi piedi sull’impiantito d’argento con suonò fortissimo, terribile e vibrante.»
Non appena mi uscirono dalle labbra queste parole, che, come so davvero uno scudo d’ottone fosse in quel momento caduto pesantemente sopra un impiantito d’argento, udii in modo distinto rimbombare, sebbene smorzatamente, un forte suono cavernoso e metallico. Lì per lì rimasi senza fiato, poi saltai in piedi; il dondolio regolare dell’Usher continuava come se nulla fosse; mi avvicinai subito alla poltrona nella quale era seduto; i suoi occhi erano allora sbarrati, fissi davanti a sé; tutto il suo viso era immobile, irrigidito. Ma quando lo toccai sopra una spalla, senza nemmeno accorgersi di me, ebbe un forte tremito in tutta la persona, un sorriso strano si mostra sulle sue labbra che si movevano mormorando lestissime e a voce balsa parole incomprensibili. Mi chinai su di lui e alla fine capii l’orribile significato delle sue frasi.
— Non sentite voi? — Si, io sento ed ho sentito da tanto tempo; da tanto, da tanto, da molti minuti, da molte ore, da molti giorni ho udito… ma non osavo… oh, pietà, di me, miserabile, scellerato che io sono! Non osavo, non osavo parlare! Noi l’abbiamo messa viva nella tomba! Non vi avevo detto che i miei sensi erano acutissimi! Vi dico ora che ho udito i primi suoi leggeri movimenti nella muta bara… Li ho uditi tanti, tanti giorni fa, ma non osavo… non osavo parlare! Ed ora… questa notte… Etelredo… ah! ah !… la porta dell’ereinità sfondata, il grido di morte del dragone, il rumore dello scudo!… diciamo piuttosto la rottura della sua bara, e lo stridio del ferro dei cardini della sua prigione, e il suo combattimento nel portico di rame del sotterraneo… Oh, dove fuggirò io? Non sarà ella qui nell’istante? Non corre ella a rimproverarmi di averla sepolta troppo presto? Non ho udito i suoi passi per le scale? Non distinguo forse i gravi ed orribili battiti del suo cuore? Pazzo!… — Qui si alza furiosamente in piedi, e grido le sue sillabe, in maniera che nello sforzo pareva rendesse l’anima: — Pazzo! Vi dico che ella adesso e dietro la porta! —
Come se nella forza sovrumana di queste parole si fosse trovato il potere di un incanto, i grandi antichi battenti che egli indicava schiusero lentamente in quell’istante le loro pesanti imposte di ebano; ne era causa a vero un colpo impetuoso di vento, ma dietro quella porta stava l’alta figura di lady Maddalena degli Usher, avvolta nel suo sudario. Il suo vestito bianco aveva macchie di sangue e il corpo rifinito portava tracce di affannoso combattimento. Per un momento rimase tremante e vacillante sulla soglia, poi con un lieve grido di lamento, cadde pesantemente dinanzi a suo fratello, e nella violenta ed estrema agonia lo trascinò seco a terra cadavere, vittima dei suoi terrori immaginari.
In preda allo spavento fuggii da quella camera e da quella casa; l’uragano furoreggiava ancora quando mi trovai fuori nella vecchia strada; ad un tratto una gran luce viva di fuoco si proiettò dinanzi; mi voltai per vedere di dove potesse venire un chiarore così insolito, perché dietro a me non c’era che il castello e le sue ombre. La splendida luce proveniva dalla luna piena che tramontava rossa come sangue e brillava attraverso lo spacco, prima appena visibile, di cui dissi già che si stendeva a zig-zag sull’edifizio del tetto ai fondamenti; e, mentre guardavo, lo spacco si allargò rapidamente, soffiò ancora per la tempesta un colpo terribile di vento, e il disco del satellite apparve intero alla mia vista; mi girò il capo quando vidi spaccarsi e crollare di sotto i potenti muri: si sentì un fracasso lungo e tremendo come la voce di mille cascate e il vicino stagno profondo e nerastro si chiuse tristamente e silenziosamente sulle rovine della Casa degli Usher.
1 Carl Maria Friedrich Ernst von Weber (1786 – 1826), compositore tedesco. Ndr.
2 Johann Heinrich Füssli (1741 – 1825), conosciuto anche come Henry Fuseli, letterato e pittore svizzero. Ndr.
3 Non ho tradotto in versi, perché, salvo rarissime eccezioni, i versi sono traditori dell’originale; ho tradotto verso per verso in prosa semiritmica e mi pare che sia riuscita compiutamente fedele al testo. Il Tr.
4 Watson, Dr. Percival, Spallanzani, e specialmente il Vescovo di Landaff. — V. Chemical Essays, vol. V.
5 In realtà il titolo del romanzo è Il viaggio sotterraneo di Niels Klim di Ludvig Holberg (1684 – 1754), scrittore norvegese. Ndr.
Commenta per primo