Il villino di Landor

Parallelo a “Il dominio di Arnheim”

Il racconto “Il villino di Landor” (Landor’s Cottage. A Pendant to “The Domain of Arnheim”) è stato composto probabilmente tra la fine del 1848 e l’inizio del 1849. Non sono sopravvissuti manoscritti o appunti.

In una lettera a Annie Richmond del 21 gennaio 1849 Poe parlò di un manoscritto, forse redatto in bella copia in vista della pubblicazione, che il poeta inviò a Israel Post per la sua rivista «American Metropolitan Magazine».

Il periodico interruppe le pubblicazioni dopo appena due numeri e a Poe fu restituito il manoscritto. Verso aprile o maggio Poe lo inviò al «Flag of Our Union», che lo pubblicò il 9 giugno.

Riguardo al titolo, si pensa che Poe avesse preso il nome Landor dallo pseudonimo di Horace Binney Wallace (1817-1852), avvocato, autore e critico, “William Landor”, di cui conosceva il romanzo Stanley (1838).

Poe intrattenne infatti della corrispondenza con Wallace e nel novembre 1841 pubblicò sul «Graham’s Magazine» “William Landor [H. B. Wallace]” in “A Chapter on Autography” – part I.

“Il villino di Landor” è ispirato alla casa di Poe a Fordham.

Le traduzioni del racconto

La prima traduzione del racconto “Il villino di Landor” si deve, come per altri racconti di Poe, a Charles Baudelaire e apparve il 24 giugno 1865 sul periodico «La Vie Parisienne» e lo stesso anno in volume in Histoires grotesques et sérieuses.

La presente traduzione italiana proviene dalla raccolta Racconti curiosi e grotteschi (STEN Editrice, 1924), senza menzione del traduttore, ma probabilmente nuova edizione dell’omonimo volume pubblicato nel 1901 dalla Società Edit. Nazionale.

Le note, dove non specificamente indicato, provengono da Edgar Allan Poe (ed. T.O. Mabbott), “Landor’s Cottage,” The Collected Works of Edgar Allan Poe — Vol. III: Tales and Sketches (1978).

Il villino di Landor

Durante un viaggio a piedi che feci l’estate scorsa traverso una o due delle contee rivierasche di NewYork, mi trovai sul cader del giorno abbastanza imbarazzato sulla strada che dovevo seguire.

Il suolo era singolarmente ondulato; e da un’ora la via, come se volesse mantenersi nell’interno delle valli, descriveva sinuosità tanto complicate, che mi era diventato impossibile d’indovinare in qual direzione fosse situato il grazioso villaggio di B***1, dove avevo deciso di passare la notte. Il sole, strettamente parlando, aveva appena brillato durante la giornata, che pure era stata straordinariamente calda. Una nebbia fumosa, sul genere di quella dell’estate indiana, avviluppava tutte quante le cose ed aumentava naturalmente la mia incertezza. A dir la verità, non m’inquietavo troppo di ciò. Se non fossi arrivato al villaggio prima del calar del sole, o anche della notte, era più che possibile che presto avrei trovato una qualche piccola fattoria olandese o qualche altro fabbricato del genere, nonostante che in tutti quei dintorni, forse perché la regione era più pittoresca che fertile, le abitazioni fossero disperse.

In ogni caso, la necessità di bivaccare all’aria aperta, col mio sacco per cuscino e il mio cane per sentinella, era un accidente che non poteva che divertirmi. Confidato il mio fucile a Ponto2, continuai dunque ad errare a mio agio fino a che, esaminando se le numerose piccole aperture che qua e là si vedevano nel folto fossero realmente dei viottoli, io fossi trascinato dal più grazioso di tutti in una strada che fosse senza dubbio carrozzabile. Non v’era da ingannarsi. Alcune traccie leggiere di ruote erano evidenti; e quantunque gli alti arbusti ed i cespugli eccessivamente folti si ricongiungessero sulla cima, non v’era in basso nessuna specie d’ostacolo che avrebbe potuto impedire anche il passaggio d’un carro montanaro della Virginia3, che è il più alto veicolo della specie che io conosca. Tuttavia la strada, eccetto pel fatto che traversava il bosco (seppure la parola bosco non è troppo importante per designare una tal riunione d’arbusti) e che conservava evidenti traccie di ruote, non rassomigliava a veruna strada di quelle che io aveva fino allora conosciute. Le traccie di cui io parlo non erano che debolmente visibili, essendo state impresse sopra una superficie solida, ma lievemente umida e che rassomigliava assai al velluto verde di Genova4. Si trattava evidentemente di erba, ma di quell’erba tanto corta, tanto fitta, tanto ammassata e tanto brillante di colore, come non si vede che in Inghilterra. Nei solchi delle ruote non si vedeva un solo impedimento: non un pezzo di legno, non un ramoscello morto. Le pietre che prima ostruivano la via non erano state gettate, ma accuratamente sistemate lungo i margini, in maniera da segnare il limite con una precisione negletta completamente pittoresca.

Negli intervalli con una grande abbondanza sbocciavano e si arrampicavano grandi mazzi di fiori selvaggi.

 Il villino di Landor
“Landor’s Cottage”, illustrazione di Harry Clarke da Tales of Mystery and Imagination, Irlanda, 1919.

Da tuttociò io non sapevo naturalmente che cosa dedurre. Senza dubbio là v’era dell’arte; ma non era ciò che mi sorprendeva; tutte le strade nel loro senso ordinario sono opere d’arte; ed io non posso nemmeno dire che là vi fosse da stupirsi per la manifestazione d’un eccesso d’arte; tuttociò che lì poteva essere stato fatto, pareva che lo fosse stato con le risorse naturali (come dicono i libri che trattano del giardino-paesaggio) con poca fatica e con poca spesa. No: non era già la forza, ma il carattere di quell’arte che mi fermò e mi spinse a sedermi sopra una di quelle pietre fiorite per contemplare da ogni parte quel fantastico viale almeno per una mezz’ora, estasiato. Di mano in mano che guardavo v’era una cosa che diventava sempre più evidente ed era che un artista, dotato d’un occhio il più delicato per ciò che ha rapporto con la forma, aveva presieduto a tutto quell’accomodamento. Si aveva avuto una gran cura per conservare una giusta misura intermedia fra l’eleganza e la grazia da un lato e il pittoresco inteso nel vero senso italiano5 dall’altro. Non vi si vedevano che poche linee rette ed anche quelle che v’erano, frequentemente spezzate.

In generale uno stesso qualsiasi effetto di linea o di colore, qualunque fosse il punto di vista, non appariva più di due volte di seguito. Ovunque la varietà nella uniformità. Era un’opera composta nella quale il gusto del critico più rigoroso avrebbe difficilmente trovato qualche cosa da disapprovare.

Entrando in quel viale io avevo girato a destra: quando m’alzai, seguitai per quella stessa direzione. La via era talmente sinuosa, che in nessun punto io ne potevo calcolare il percorso per uno spazio maggiore di due o tre passi. Il suo carattere poi non subiva nessun materiale cambiamento.

In quel momento un mormorio d’acqua colpì dolcemente il mio udito e pochi secondi dopo, a una svolta un poco più brusca delle altre, scorsi una specie di fabbricato situato ai piedi d’un dolcissimo pendio, proprio di fronte a me. Io non poteva nulla vedere distintamente per la nebbia che avvolgeva tutta la vallata inferiore.

Ma si levò una brezza leggiera non appena il sole cominciò a tramontare e mentre io stavo fermo sulla sommità del pendio, la nebbia si fuse in ondulazioni che cominciarono ad alzarsi sopra al paesaggio.

Mentre che quella scena gradatamente si svolgeva sotto ai miei occhi, come io la descrivo, pezzo per pezzo, qua un albero, là un luccichio d’acqua e più in là un angolo di strada, non potevo fare a meno di pensare che tutto ciò non fosse se non una di quelle ingegnose illusioni che da noi sono conosciute col nome di quadri dissolventi6.

Tuttavia, durante il tempo che aveva messo la nebbia a sparire, il sole era disceso dietro alle colline e di là, come se avesse fatto un balzo verso il sud, era tornato a mostrarsi in tutta la sua pienezza, splendente d’un colore di porpora, traverso a una spaccatura aperta dalla parte occidentale della vallata. Così, come per magico incanto, la valle con tutto ciò che in essa si trovava, era maravigliosamente illuminata.

Il primo sguardo, appena il sole si trovò nella posizione che ho ora indicata, mi causò un’impressione quasi simile a quella che provai quando, fanciullo, mi fu dato d’assistere alla scena finale di qualche melodramma o di qualche altro ben combinato spettacolo coreografico. Non vi mancava nulla: nemmeno la mostruosità del colore: imperocché la luce del sole usciva da quella spaccatura tutta tinta di porpora e di arancio: e il verde intenso dell’erba della valle era riflesso più o meno su tutte quante le cose da quell’ondeggiamento di vapori che rimanevano sospesi nell’aria come se avessero ripugnanza ad allontanarsi da un così splendido spettacolo.

La piccola valle sulla quale si posava allora il mio sguardo, sotto a quel velario di nebbia, non era lunga più di 400 yarde7: e variava in larghezza dalle 50 alle 150 e forse alle 2008: era più stretta verso la sua estremità settentrionale e s’allargava avanzandosi verso il sud ma senza molta precisione in regolarità. La parte più larga era presso a poco di 80 yarde9 all’estremità meridionale. I pendii che chiudevano la valle non potevano aspirare al nome di colline, meno che sul lato settentrionale, dove una ripida scarpata di granito s’alzava fino a un’altezza di circa 90 piedi10: e, come ho già detto, la vallata in quel punto non era più larga di 50 piedi: ma di mano in mano che il visitatore da quelle roccie discendeva verso il mezzogiorno, trovava tanto a destra che a sinistra, declivi meno alti, meno ripidi e meno rocciosi. Tutto, in una parola, procedendo verso il sud andava abbassandosi e addolcendosi: e tutta la valle era contornata da una cintura d’alture più o meno elevate, meno che su due punti. Ho già parlato d’uno di questi. Esso era situato verso il nord-ovest, là dove il sole al tramonto s’apriva una via nell’anfiteatro in mezzo a una brusca spaccatura tagliata nel masso di granito: quella apertura poteva avere una misura di dieci yarde11 nella sua più ampia larghezza, almeno fino a dove l’occhio poteva arrivare. Essa sembrava salire come una via naturale verso le profondità delle montagne e delle foreste inesplorate. L’altra apertura era situata direttamente all’estremità meridionale della valle, dove le colline non erano più in generale che dolci pendii stendentisi da oriente a occidente sopra uno spazio di circa 150 yarde12.

A metà di quella distesa v’era una depressione che scendeva fino al livello del suolo della valle. In ciò che concerneva la vegetazione, come anche in tutto il resto, il paesaggio andava abbassandosi ed addolcendosi verso il sud. A nord, sopra al precipizio di roccie, a pochi passi dal margine, s’alzavano i magnifici tronchi di numerose hickoryes13, di noci e di castagni mescolati con le quercie: e i grossi rami laterali, spinti avanti principalmente dai noci, si spiegavano sopra alla cresta delle rupi. Avanzando verso il sud, l’esploratore incontrava prima la medesima specie d’alberi: ma questi erano sempre meno alti e sempre più si allontanavano dal tipo favorito di Salvator14: poi trovava l’olmo, più gentile, al quale succedevano le sassifraghe ed i carrubi; venivano appresso altri alberi d’un carattere anche più mite come tigli, redbud15, catalpe e sicomori, seguiti a loro volta da altre specie sempre più graziose e modeste.

Tutta la superficie del pendio meridionale era coperta solo che da arbusti selvaggi, interrotti qua e là da qualche grigio salice o da qualche bianco pioppo. In fondo alla vallata, poiché bisogna osservare che la vegetazione di cui ho finora parlato non copriva che le roccie o le colline, non si vedevano che soli tre alberi isolati. Uno era un olmo di grande altezza e d’una forma mirabile. Il secondo era un hickory, molto più grosso dell’olmo e in tutto molto più bello, quantunque anche l’altro fosse un albero superbo. Sembrava che fosse incaricato di far la sentinella all’ingresso di nord-ovest. Si slanciava fuori da un ammasso di roccie, dall’interno stesso di esse, e proiettava lontano il suo corpo elegante nella luce dell’anfiteatro, formando un angolo di circa 45 gradi. Ma a circa 30 yarde16 e ad oriente di esso s’alzava la gloria della vallata, l’albero senza dubbio più meraviglioso che io abbia mai visto durante la mia vita, eccettuato forse qualcuno dei cipressi dell’Itchiatuckanee17. Era un tulipifero dal triplice tronco, liriondendron tulipiferum, della famiglia delle magnolie18. I suoi tre tronchi si separavano dal tronco principale a circa tre piedi19 dal suolo e divergevano lentamente e gradatamente non essendo distanti l’uno dall’altro più di quattro piedi al punto in cui il più grosso di essi si espandeva in fronde, ad un’altezza di circa 80 piedi20 dal suolo. L’altezza totale del tronco principale era di 120 piedi21. Nulla v’ha che possa passare in bellezza la forma e il colore verde, scintillante, rilucente delle foglie di quel tulipifero, le quali avevano ben otto pollici22 di larghezza: ma la stessa loro gloria era eclissata dal fastoso splendore della sua stravagante fioritura.

Figuratevi strettamente collegati un milione dei più grandi e dei più risplendenti tulipani: è questo il solo mezzo perché il lettore possa farsi un’idea del quadro che io vorrei dipingergli. Si aggiunga poi la sveltezza graziosa dei tronchi a forma di colonne, nette, pulite, finemente granulose, il più grosso dei quali misurava quattro piedi di diametro a venti piedi dal suolo23. Quegli innumerevoli fiori, mescolati a quelli degli altri alberi, non meno belli forse ma infinitamente meno maestosi, riempivano tutta la valle di profumi più squisiti di tutti i profumi d’Oriente24.

Il suolo dell’anfiteatro era in generale rivestito di un’erba simile a quella che io aveva veduto per la via: forse più deliziosamente tenera, più fitta, più vellutata ed anche più miracolosamente verde. Era difficile comprendere come si fosse potuto raggiungere un tal grado di bellezza.

Ho già parlato delle due aperture che erano nella valle. Da quella posta a nord-ovest sgorgava un ruscelletto che scendeva lungo le roccie, con un dolce mormorio ed un lieve spumeggiare fino a che andava a rompersi contro il gruppo di massi da cui sorgeva l’hickory isolato. Là, dopo aver girato intorno all’albero, piegava un poco verso il nord-est lasciando il tulipifero a circa venti passi verso il sud e non facendo più nel suo corso nessuna sensibile deviazione fino a che arrivava al punto intermedio fra le frontiere orientale ed occidentale della vallata. Da quel punto, dopo una serie di curve, piegava a un tratto ad angolo retto e procedeva verso sud, serpeggiando di quando in quando e cadendo infine in un laghetto di forma irregolare, quantunque approssimativamente ovale, che luccicava all’estremità inferiore della valle. Quel laghetto aveva forse un centinaio di yarde25 di diametro nella sua larghezza più ampia. Nessun specchio avrebbe potuto rivaleggiare con quelle acque. II fondo che si scorgeva distintamente era formato unicamente da sassi d’una fenomenale bianchezza. Le rive ricoperte di quell’erba di color smeraldo che ho già descritta, arrotondate in curva piuttosto che tagliate a scarpata, si drizzavano verso quel cielo chiaro che vi si stendeva di sotto: e questo era così limpido e rifletteva alcune volte così nettamente gli oggetti che lo dominavano, che era veramente difficile di determinare il punto dove finiva la riva reale per cominciare quella riflessa. Le trote ed altre specie di pesci di cui quel lago pareva, per così dire, pullulare, avevano il preciso aspetto di pesci volanti. Era quasi impossibile immaginarsi che essi non fossero sospesi in aria. Una leggiera piroga di sughero26 che riposava tranquillamente sull’acqua vi rifletteva le sue piccole fibre con una fedeltà che non avrebbe potuto essere superata da uno specchio il più perfettamente levigato. Un’isoletta gentile, sorridente, con i suoi fiori in piena espansione, grande tanto da poter contenere una pittoresca casina somigliante ad una capanna destinata ad uccellini, s’alzava sopra al lago, non lungi dalla riva settentrionale a cui era unita da un ponte di natura molto primitiva ma dalle forme incredibilmente leggiere. Esso era composto da una sola tavola di tulipifero larga e forte, lunga 40 piedi27, che copriva tutto lo spazio dall’una all’altra riva, appoggiata sopra una sola arcata, sottilissima ma ben visibile, destinata ad eliminare qualsiasi oscillamento. Dalla estremità meridionale del lago si staccava una continuazione del ruscello che, dopo aver serpeggiato per una trentina di yarde28, passava ad un tratto traverso a quella depressione che ho già descritta, situata in mezzo alle colline dalla parte di mezzogiorno e poi precipitava bruscamente al basso d’un precipizio d’un centinaio di piedi, aprendosi una via vagante e non vista fino all’Hudson.

Il lago in qualche punto aveva una profondità di trenta piedi29: ma quella del ruscello raramente passava i tre piedi e la sua più ampia larghezza era appena di otto30. Il fondo e le sue rive erano come quelle dello stagno: e se v’era un difetto da notare dal punto di vista del pittoresco, era la loro eccessiva proprietà.

La superficie del prato era qua e là interrotta da qualche brillante arboscello come l’ortensia, la palla-di-neve comune, o la canna aromatica: o, più frequentemente ancora, da qualche gruppo di gerani di varia specie, maravigliosamente fioriti. Questi crescevano in vasi accuratamente nascosti nel suolo in modo da aver tutta l’apparenza di piante indigene. Inoltre il velluto del prato era deliziosamente chiazzato da una quantità di pecore che erravano nella valle assieme a tre daini addomesticati e a un gran numero di anitre dalle piume brillanti. Un grossissimo cane pareva aver l’incarico di sorvegliare su tutti quegli animali. Lungo le colline d’oriente e d’occidente, verso la parte superiore dell’anfiteatro, là dove i limiti della vallata erano più o meno scoscesi, l’edera cresceva a profusione, in modo che appena qua e là poteva scorgersi un pezzo di roccia nuda. Allo stesso modo, il precipizio nord era coperto quasi interamente da viti d’una infinita ricchezza, uscenti alcune dalle basi della rupe ed altre sospese agli interstizi della parete.

La leggera elevazione che formava la frontiera inferiore di quel breve dominio era coronata da un muro di pietra unito, d’una sufficiente altezza per impedire che i daini se ne andassero. Altrove non si vedeva nessuna specie di barriera, imperocché, meno che là, in nessuna parte v’era bisogno di chiusure artificiali: se qualche pecora, per esempio, allontanandosi aveva cercato di fuggire dalla vallata per la parte dell’apertura, dopo poche yarde avrebbe trovato chiuso il suo cammino dalla ripida scarpata della roccia donde precipitava la cascata che, sulle prime, aveva attratto la mia attenzione quando io m’ero avvicinato a quel posto. In una parola, non v’era altra entrata ed altra uscita all’infuori d’un cancello che tagliava un punto della strada fra le roccie, pochi passi al disotto del punto dove io m’ero fermato per riconoscere il paesaggio.

Ho detto che il ruscello andava irregolarissimamente serpeggiando in tutto il suo percorso. Come ho già fatto osservare, le sue due principali direzioni erano prima da occidente ad oriente e poi da nord a sud. Al punto del gomito, tornava indietro formando una specie di nodo quasi circolare in modo da contornare una specie di penisola che però doveva, per quanto era possibile, somigliare a un’isola d’un sedicesimo circa d’acro di terra31. Su di essa era costruito il villino; e dicendo che questa casa, come la terrazza infernale scorta da Vathek, era d’un’architettura sconosciuta negli animali terreni32, voglio solo far comprendere che mi colpì nel suo insieme per il sentimento più fino di poesia combinato con quello della proprietà; poesia, in una sola parola, poiché mi sarebbe ben difficile impiegare altri termini per dare della poesia una definizione astratta più rigorosa di questa, e non voglio già dire che quel villino in alcun punto avesse un puro carattere di specialità che lo distinguesse da altri.

Infatti niente di più semplice e di meno pretensioso di quel villino. Il suo effetto meraviglioso consisteva unicamente nel suo artistico adornamento, simile a quello d’un quadro. Mentre l’esaminava, avrei potuto pensare che qualche paesista di prim’ordine l’avesse eseguito col suo pennello.

Il punto dal quale io da principio avevo contemplato la vallata, per quanto vi si avvicinasse, non era certo il miglior punto per giudicar quella casina. Io dunque la descriverò come più tardi la vidi, quando mi posi sul muro di pietra all’estremità meridionale dell’anfiteatro.

Il fabbricato principale aveva circa 24 piedi di lunghezza e 16 di larghezza33, non certo di più. La sua totale altezza dal suolo fino alla sommità del tetto non passava i 18 piedi34. Un’altra costruzione si univa alla sua estremità occidentale, ma questa in tutte le sue proporzioni era almeno d’un terzo più piccola; poiché il suo prospetto si trovava almeno per due yarde35 più indietro di quello del fabbricato principale ed il tetto era naturalmente situato alquanto più in basso. Ad angolo retto con queste costruzioni e dietro al fabbricato principale, ma non esattamente nel mezzo di esso, s’alzava un terzo compartimento piccolissimo e di un’apparente dimensione d’un terzo almeno dell’altro fabbricato posto a ponente. I tetti dei due fabbricati più grandi avevano un pendio molto scosceso descrivendo, a partire dalla linea di mezzo, una curva concava e spingendosi almeno per quattro piedi36 fuori del muro di facciata, in modo da formar copertura a due portici.

Questi ultimi sporti non avevano naturalmente nessun bisogno di sostegno; ma poiché avevano l’aria d’averne bisogno, vi erano stati adattati alcuni leggieri pilastri, solo però negli angoli, perfettamente puliti.

Il tetto dell’ala settentrionale non era un prolungamento del tetto principale. Fra il fabbricato grande e l’ala occidentale s’alzava un molto sottil camino quadrato, fatto di mattoni olandesi induriti, alternati rossi e neri e coronato da un’altra fila di mattoni formanti cornicione.

La porta principale non era simmetricamente aperta nella parete più importante del fabbricato, imperocché questa era invece più verso levante, mentre le due finestre erano verso ponente; e queste non scendevano fino al suolo, ma erano più lunghe e più strette di quelle solite: avevano un solo sportello simile a una porta e i cristalli a forma allungata di losanghe: la porta era a vetri nella parte superiore, della stessa forma di quelli delle finestre, con un controsportello mobile che li proteggeva durante la notte. L’ala occidentale aveva la sua porta e un’unica finestra aperta verso il sud. L’ala settentrionale non aveva porta esterna ed un’unica finestra vi si apriva ad oriente.

Il muro verso oriente era fiancheggiato da una scala che lo traversava diagonalmente: e sotto il riparo formato dalla sporgenza avanzatissima del tetto i gradini terminavano ad una porta che conduceva alle soffitte o piuttosto al granaio; imperocché quella parte non prendeva luce che da una sola finestra aperta verso tramontana e sembrava destinata a servir di magazzino.

Le piazze del corpo principale e dell’ala occidentale non erano pavimentate come il solito: ma dinanzi alle porte e alle finestre erano incassate sul verde dell’erba larghe lastre di granito piatte, ma di forma irregolare che fornivano in ogni stagione un comodo cammino. Spaziosi marciapiedi fatti delle stesse pietre non ermeticamente connesse, ma con frequenti intervalli fra loro, nei quali spuntava l’erba vellutata del prato, conducevano dalla casa sia verso una sorgente cristallina a soli cinque passi di distanza, sia verso la via, sia verso uno o due padiglioni situati a nord, di là del ruscello e completamente nascosti da boschetti di carrube37.

A non più di sei passi dalla porta principale si drizzava il tronco morto d’un pero fantastico, tanto ben coperto da capo a piedi di magnifici fiori di bignonia che era difficile indovinare quale oggetto esso fosse in realtà. Ai diversi rami di quell’albero erano sospese gabbie con uccelli diversi38. In una, vasto cilindro di vimini con un anello alla sommità, si dimenava un uccello motteggiatore39; in un’altra un rigogolo; in una terza l’impudente passero di risaia e in altre tre o quattro più eleganti prigioni risuonava il canto dei canarini.

I pilastri della piazza erano inghirlandati di gelsomini e di caprifogli e dall’angolo formato dal corpo principale del fabbricato e dall’ala occidentale si spiccava una vite d’una ricchezza senza pari. Sfidando ogni ostacolo, essa si era prima arrampicata fino al tetto inferiore, poi si era slanciata su quello superiore e là, attorcigliandosi lungo il colmo, essa gettava i suoi pampini a destra e a sinistra fino a che raggiungeva l’apice verso oriente, donde scendeva trascinandosi per i gradini.

Tutta la casa era costruita in legno alla vecchia moda olandese, fatta con travi larghe e non arrotondate agli angoli. Questa maniera ha la particolarità di far sembrare le case così costruite più larghe alla base che alla sommità, come le architetture egiziane: e nel caso attuale, questo effetto pittoresco all’estremo grado era anche aumentato da numerosi vasi di magnifici fiori che circondavano quasi interamente la base dei fabbricati.

Le travi erano dipinte in color grigio scuro: e chi è artista comprenderà subito come una tal tinta neutra intoni felicemente col verde acceso delle foglie dei tulipiferi che ombreggiavano quella parte del villino.

Sedendosi sul muro di pietra, di cui ho già parlato, si aveva la posizione più adatta per esaminare i fabbricati: imperocché l’angolo di sudest proiettandosi in avanti, l’occhio poteva in una volta abbracciare la totalità delle due facciate, con la parte pittoresca volta ad oriente ed una sufficiente porzione dell’ala settentrionale oltre ad una parte del grazioso tetto della serra e quasi la metà d’un leggiero ponte che traversava il ruscello in vicinanza di quei fabbricati.

Non rimasi a lungo sulla sommità della collina, ma pure vi rimasi abbastanza per esaminare attentamente il paesaggio posto sotto ai miei piedi. È evidente che io mi ero allontanato dalla strada del villaggio ed avevo così un’eccellente scusa da viaggiatore sperduto per bussare alla porta di quella casa e domandare la via: senza complimenti quindi mi feci avanti.

Passata la porta, la via sembrava continuasse sopra un rialzo naturale che discendeva in dolce pendio lungo la parete rocciosa di nord-est. Essa mi condusse ai piedi dell’abisso settentrionale, di là pel ponte, girando la fronte volta a oriente, fino alla porta della facciata. Strada facendo osservai che era impossibile di scorgere i padiglioni.

Voltando l’angolo, il cane si slanciò su di me, minaccioso e silenzioso con l’occhio e la fisonomia d’una tigre. Gli tesi tuttavia la mano in testimonianza di amicizia e non ho mai conosciuto un cane che più prontamente ubbidisse a un appello così fatto alla sua cortesia. Questo non solamente chiuse le fauci e scosse la coda; ma mi offrì la sua zampa ed estese le sue cortesie anche a Ponto.

Non scorgendo alcuna campana, bussai col bastone contro la porta che era socchiusa. Subito una persona si avanzò verso la soglia, era una giovine di circa ventott’anni, slanciata e leggiera e d’una statura un poco superiore alla media. Avvicinandosi con un’aria insieme modesta e decisa, che io non saprei assolutamente descrivere, io dissi fra di me:

«Ho proprio trovato la perfezione della grazia naturale in antitesi con l’artificiale».

La seconda impressione che ella produsse in me e che fu molto più viva della prima, fu una impressione d’entusiasmo. Un’espressione romantica così intensa e oserei dire d’una così sovrumana straordinarietà come quella che raggiava dalle sue pupille tanto profondamente incassate, mai fino a quel momento era penetrata in fondo al mio cuore. Io non so come ciò m’avvenga, ma quella espressione particolare dell’occhio che alcune volte si delinea anche sulle labbra, è la simpatia più potente, se non l’unica, che incatena la mia attenzione sopra una donna. Romantica! purché i miei lettori comprendano tutto ciò che io voglio indicare con questa parola! romantico e femminile mi sembrano due termini che si possono reciprocamente convertire: e dopo tutto ciò che l’uomo ama veramente nella donna è la sua femminilità. Gli occhi di Annie – io intesi qualcuno che dall’interno chiamava la sua «cara Annie» – erano d’un color grigio-celeste40: la sua capellatura era d’un biondo castagno: e fu quanto io potei osservare in lei.

Dietro il suo cortesissimo invito, entrai prima in un vestibolo abbastanza spazioso. Venuto là sopratutto per osservare, notai che sulla mia destra, entrando, v’era una finestra simile a quella della facciata: sulla mia sinistra, una porta conduceva nella camera principale: intanto un’altra porta spalancata di fronte a me mi permise di vedere una piccola camera delle stesse dimensioni del vestibolo, addobbata per uso di gabinetto da lavoro e con una larga finestra a inferriata aperta dalla parte di tramontana41.

Passai nel parlatorio e mi trovai col signor Landor: poiché, come appresi più tardi, così egli si chiamava.

Egli aveva modi cortesi ed anche cordiali: ma in quel momento la mia attenzione era più attratta dall’accomodamento della casa, la quale tanto mi aveva interessato, che dalla personale fisonomia del proprietario.

Allora m’accorsi che l’ala di tramontana era una camera da letto la cui porta s’apriva sul parlatorio. Ad ovest di questa porta era una semplice finestra che guardava il ruscello. Alla estremità occidentale del parlatorio v’era un caminetto, poi una porta che conduceva sull’ala occidentale, la quale forse doveva servir di cucina.

È impossibile immaginare qualche cosa di più rigorosamente semplice del mobilio di quel parlatorio. Il pavimento era ricoperto da un tappeto di lana, d’un tessuto eccellente, a fondo bianco consparso di piccoli disegni circolari in color verde. Le tende delle finestre erano in mussolina d’un candor niveo: erano abbastanza ampie e discendevano in pieghe fine, parallele, d’una rigorosa simmetria fino a livello del tappeto. Le mura erano ricoperte d’un parato di carta francese di gran finezza, a fondo argentino con un cordoncino d’un verde pallido scorrente a zig-zag42. Su quel parato non v’erano che solo tre litografie squisite di Julien43, a tre colori44, sospese alle pareti, ma senza cornici. Uno di quei disegni rappresentava un quadro di ricchezza o piuttosto di voluttà orientale; un altro una scena carnevalesca d’un impareggiabile umorismo; il terzo era il ritratto d’una donna greca: e mai viso tanto divinamente bello e mai un’espressione di volto così vagamente provocante aveva fino allora fermato la mia attenzione.

La parte solida del mobilio consisteva in una tavola rotonda, poche sedie, fra le quali una poltrona a dondolo45, e un divano, o meglio un canapé, il cui legno era d’acero dipinto in un bianco-latte filettato di verde, col fondo fatto di canne intrecciate. Tavola e sedie erano fatte apposta per stare insieme; ma le forme erano state evidentemente inventate da quella stessa mente che aveva tracciato il piano dei giardini: ed era impossibile concepire una più graziosa cosa.

Sulla tavola era qualche libro: una bottiglia di cristallo ampia e quadrata contenente un qualche nuovo profumo: una semplice lampada a stella lucente di cristallo con un paralume all’italiana e un largo vaso di fiori meravigliosamente aperti. Insomma i fiori dai colori magnifici e d’un profumo delicato formavano il solo adornamento della sala. Il focolare del caminetto era quasi interamente occupato da un vaso di splendidi gerani. Sopra una tavoletta triangolare, in ogni angolo della camera, era posato un vaso simile che non differiva dal compagno se non per il suo contenuto. Altri due mazzi uguali ornavano lo sporto del camino e molte violette colte di recente erano messe sui davanzali delle finestre aperte.

E qui mi fermo, poiché questo mio scritto non ha altro scopo fuori di quello di dare un’esatta pittura del villino del signor Landor, come io stesso l’ho veduto.

1 Villaggio non identificato.

2 Ponto era un tempo un nome canino comune. Era anche il nome del cane del narratore in Sheppard Lee di R.M. Bird, recensito da Poe nel 1836.

3 I carri da montagna erano grandi, avevano freni sovradimensionati, ruote alte quarantaquattro e cinquantadue pollici e un cassone lungo più di dieci piedi per tre e mezzo.

4 Velluto di qualità eccellente. Poe l’ha nominato anche nel dramma Poliziano, nel “Diario di Julius Rodman” e nel racconto “Bon-Bon”.

5 Poe usa il termine francese pittoresque. La maggior parte dei libri sul giardinaggio paesaggistico inglesi e americani si riferivano al “pittoresco” in contrapposizione allo stile “naturale”, intendendo letteralmente nello stile di un pittore.

6 In originale “vanishing pictures”, immagini che scompaiono. Ndr.

7 365 metri. Ndr.

8 Dai 4 metri e mezzo ai 137 e forse ai 183. Ndr.

9 Circa 72 metri. Ndr.

10 Circa 27 metri e mezzo. Ndr.

11 Circa 10 metri. Ndr.

12 Circa 140 metri. Ndr.

13 Noci americane. Ndr.

14 Allusione a Salvator Rosa (1615-1673) della scuola napoletana, famoso per i dipinti di scene selvagge negli Appennini. È nominato in “Mattino sul Wissahiccon”.

15 Albero di Giuda (Cercis canadensis). Ndr.

16 Poco più di 27 metri. Ndr.

17 Il torrente che Poe aveva in mente potrebbe essere l’Ichawaynochaway, che sfocia nel fiume Flint nella contea di Baker, in Georgia.

18 Poe menzionò gli enormi alberi di tulipano in fiore anche in “Mattino sul Wissahiccon” e “Lo scarabeo d’oro”, dove uno è erroneamente, per motivi di trama, collocato vicino a Sullivan’s Island. A differenza della magnolia correlata, gli alberi di tulipano prosperano nell’isola di Manhattan e nei suoi dintorni. Poe fornisce il nome in latino corretto; i botanici usano la forma tulipifera.

19 Circa un metro. Ndr.

20 Poco più di 24 metri. Ndr.

21 36 metri e mezzo. Ndr.

22 Poco più di 20 cm. Ndr.

23 Rispettivamente poco più di un metro e 6 metri. Ndr.

24 In originale filled the valley with more than Arabian perfumes. Ndr.

25 Poco più di 90 metri. Ndr.

26 In originale light birch canoe: canoa leggera in betulla. Ndr.

27 Circa 12 metri. Ndr.

28 Circa 27 metri. Ndr.

29 Circa 9 metri. Ndr.

30 Circa 2 metri e mezzo. Ndr.

31 Circa 250 m2. Ndr.

32 In originale “était{e} d’une architecture inconnue daps les annales de la terre”. Ndr.
La frase francese significa è correttamente citata dalla versione francese originale di Vathek di William Beckford, ma Poe probabilmente la prese da Stanley di Wallace (1838), I, 154. La stessa citazione fu usata anche da Poe in una recensione di Ancient America di George Jones, nell’«Aristidean» del marzo 1845.

33 Poco più di 7 metri di lunghezza per quasi 5 di larghezza. Ndr.
Haldeen Braddy, Glorious Incense (1953), p. 29, osserva che le dimensioni del cottage sono simili a quelle del cottage di Poe a Fordham.

34 Quasi 5 metri e mezzo. Ndr.

35 Quasi 2 metri. Ndr.

36 Poco più di un metro. Ndr.

37 In originale a few locusts and catalpas: da alcune robinie e catalpe.

38 In originale cages of different kinds. Ndr.

39 In originale mocking bird: mimo, o tordo americano. Ndr.

40 In originale “spiritual gray”. Ndr.

41 Non c’è alcuna finestra a bovindo (large bow window) nel cottage Fordham.

42 La carta da parati era quella di una stanza nella casa della signora Whitman a Providence. Lei vi fa riferimento, menzionando il motivo a zigzag, in una lettera del 15 dicembre 1864 a G.W. Eveleth e in un’altra del 24 aprile 1874 a Ingram.

43 L’artista menzionato è il pittore e litografo francese Bernard-Romain Julien (1802-1871).

44 In francese nel testo: trois crayons. Ndr.

45 La sedia a dondolo di Poe è conservata nel cottage Fordham. La signora Clemm la diede alla signora Rebecca Cromwell, la cui figlia Susan sposò Josiah Valentine, nipote del padrone di casa di Poe, John Valentine. Il loro figlio William Henry Valentine presentò la reliquia per l’esposizione nel cottage.

Daniele Imperi 681 Articoli
Scrivo testi per il web e correggo bozze di manoscritti. Scrivo anche sul mio blog «Penna blu» e sull’aerosito ufficiale di F.T. Marinetti.

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